Un mondo senza evasione possibile…Giorgo Amico

“Sin dall’infanzia, mi sembra d’aver sempre avuto, molto netto, il doppio sentimento che doveva dominarmi durante tutta la prima parte della mia vita: quello cioè di vivere in un mondo senza evasione possibile dove non restava che battersi per una evasione impossibile”(1). Inizia così Memorie di un rivoluzionario di Victor Serge, uno dei capolavori della memorialistica politica di questo secolo. Al pari di molti altri protagonisti di primo piano del movimento rivoluzionario dei paesi latini come Nin, Monatte, Rosmer, Victor Serge, che in realtà si chiamava Viktor L’vovic Kibal’cic, si  forma in quella vera e propria fucina del socialismo critico rappresentato dal movimento libertario e dal sindacalismo rivoluzionario di inizio secolo, quando gli scambi e i confini fra socialismo, anarchismo e sindacalismo non erano ancora rigidamente definiti come oggi (2). Un anarchismo “sentimentale nutrito di ansia di totale rinnovamento etico e sociale, che avversava insieme la ‘pochezza’ del socialismo riformista e le storture dell’ordine costituito borghese”(3).

Victor  Serge nasce a Bruxelles il 30 dicembre 1890 da genitori russi emigrati. L’infanzia trascorsa in un ambiente poverissimo  segna indelebilmente  la sua vita. Ricordando nelle sue memorie il fratello, Raoul-Albert, morto a nove anni di tubercolosi e di fame, Victor rende espliciti i motivi ispiratori e le caratteristiche stesse della sua lunga e travagliata militanza politica: l’avversione profonda verso ogni tipo di ingiustizia e di oppressione, il disprezzo per l’ipocrisia mascherata dei benpensanti, la profonda umana attrazione verso chi soffre.

“Detestavo – scrive – la fame lenta dei bambini poveri; negli occhi di quelli che incontravo, credevo riconoscere le espressioni di Raoul. Mi erano così più vicini di chiunque altro, fratelli, e li sentivo condannati. Sono questi sentimenti profondi che mi sono rimasti”(4).

Privo di studi regolari, istruito dal padre che, “universitario povero”, disprezzava  l’insegnamento borghese impartito alle classi popolari,(5) il giovane Victor a quindici anni si allontana da casa impiegandosi prima come apprendista fotografo, poi come fattorino d’ufficio, disegnatore tecnico, operaio. Membro della Jeune Garde Socialiste, ne scopre presto il carattere opportunista e nel 1906 in occasione del congresso straordinario del Parti Ouvrier Belge rompe con la socialdemocrazia per formare il Groupe Révolutionnaire di Bruxelles di ispirazione libertaria.

“L’anarchismo – ricorda nella sua autobiografia – ci prendeva per intiero perché ci chiedeva tutto, ci offriva tutto: non c’era un solo angolo della vita che non rischiarasse…l’anarchismo esigeva anzitutto l’accordo tra gli atti e le parole: per questa ragione andammo alla tendenza estrema, quella che mediante una dialettica rigorosa arrivava, a forza di rivoluzionarismo, a non avere più bisogno di rivoluzione”(6).

Trasferitosi in Francia, prima a Lille e poi a Parigi, con lo pseudonimo di Rétif collabora alla stampa anarchica ed entra in contatto con i teorici dell’azione diretta e illegale. Nel 1912, coinvolto marginalmente nel caso Bonnot, per il suo rifiuto di collaborare con la polizia viene condannato a cinque anni di prigione. Scarcerato, nel gennaio 1917 si rifugia in Spagna, dove con il nuovo nome di Victor Serge partecipa alla preparazione dell’insurrezione di Barcellona del 19 luglio per iniziare, poi, nell’estate un lungo e drammativo viaggio verso la terra dei suoi genitori, quella Russia dove la rivoluzione proletaria è all’ordine del giorno.  Rientrato clandestinamente in Francia, arrestato e internato nel campo di Précigné, nuovamente espulso agli inizi del 1919, Serge riesce finalmente dopo una lunga peregrinazione attraverso  l’Europa a raggiungere Pietrogrado nell’aprile 1919. Dall’esperienza del carcere e dal fallimento dell’insurrezione barcellonese egli ha maturato la consapevolezza che la possibilità di raccogliere vittoriosamente la sfida della borghesia, di trasformare la guerra imperialista in rivoluzione proletaria richiede ben altri stumenti di quelli offerti dall’anarchismo. Proprio per questo, nonostante l’iniziale sconcerto provocato dal contrasto tra gli ideali libertari e la realtà di una crescente limitazione degli spazi della democrazia operaia che egli nota fin dal suo arrivo in Russia, decide di aderire al Partito comunista e di militare da bolscevico pur preservando intatto il proprio spirito critico:

“La mia decisione era presa; non sarei stato né contro i bolscevichi né neutrale, sarei stato con loro, ma liberamente, senza abdicare al pensiero né al senso critico…Sarei stato con i bolscevichi perché davano compimento con tenacia, senza scoraggiamenti, con ardore magnifico, con passione riflessa, alla necessità stessa; perché erano soli a darvi compimento, prendendo su di sé tutte le responsabilità e tutte le iniziative e dando prova di una stupefacente forza d’animo. Essi erravano certo su parecchi punti essenziali: con la loro intolleranza, con la loro fede nella statizzazione, con la loro tendenza alla centralizzazione e alle misure amministrative. Ma, se bisognava combatterli con libertà di spirito e in spirito di libertà, era con loro, tra loro” (7).

La rivoluzione in un vicolo cieco

Collaboratore dell’organo del Soviet di Pietrogrado, Severnaja Kommuna, Serge lavora alle dirette dipendenze di Zinoviev, presidente del CE del Comintern, sviluppando un’enorme mole di lavoro e impegnandosi a fondo nei dibattiti in corso nel partito e nell’internazionale in una Pietrogrado affamata e misera ma percorsa da una tensione febbricitante, quella “città conquistata”, protagonista del suo grande romanzo del 1931. La costituzione della Ceka e lo scatenamento del terrore non lo convincono, così come non nasconde di provare un’intima pietà per le vittime della repressione qualunque fosse la loro origine sociale, ma è altrettanto consapevole della tragicità dell’ora e che “non c’è mai stata rivoluzione senza terrore”(8). Il X Congresso del partito con il divieto delle frazioni e la tragedia di Kronstadt lo colpiscono profondamente, così come la definitiva liquidazione di ciò che resta del movimento anarchico e dei  partiti sovietici. Grazie alle sue radici libertarie egli è lucidamente consapevole dei pericoli che il potere sovietico sta correndo, ma anche della necessità di scelte che apertamente confliggono con il “sogno”, così lo chiama, di quello Stato-Comune descritto da Lenin nelle pagine di Stato e rivoluzione:

“La guerra, la difesa interna contro la controrivoluzione, la carestia creatrice di un apparato burocratico di razionamento avevano ucciso la democrazia sovietica. Come sarebbe rinata? Quando? Il partito viveva del giusto sentimento che il minimo abbandono di potere avrebbe dato la meglio alla reazione”(9).

La speranza è nella rivoluzione mondiale, nel proletariato di quell’Occidente che stenta a ritrovare una normalità borghese dopo la sanguinosa esperienza della guerra imperialistica. Nel 1921 il Comintern lo invia prima a Berlino a lavorare nella redazione di Inprekorr  e poi a Vienna dove soggiornerà fino al 1923, redattore insieme a Gramsci e a Lukacs de La Correspondance Internationale, ormai a pieno titolo rivoluzionario professionale, membro del partito mondiale della rivoluzione proletaria:

“Gli eventi continuavano a schiacciarci…Vivevamo soltanto per un’azione integrata alla storia, saremmo stati intercambiabili… ci sentivamo legati ai compagni che, adempiendo agli stessi compiti, soccombevano o ottenevano successi al capo opposto d’Europa. Nessuno di noi aveva nel senso borghese della parola un’esistenza personale; cambiavamo di nome, di luogo, di lavoro secondo i bisogni del partito, avevamo appena di che vivere… e non ci interessavamo né a far denaro, né a far carriera, né a produrre un’opera né a lasciare un nome: ci interessavamo soltanto ai difficili progressi del socialismo”(10).

Da Vienna Serge assiste annichilito dopo la morte di Lenin allo scatenamento della campagna contro Trotsky, al diffondersi del cancro burocratico, all’estendersi della “soffocante dittatura degli uffici”, alla emarginazione di ogni voce anche minimamente fuori del coro, dai francesi Rosmer, Monatte, Souvarine, all’italiano Bordiga, all’ungherese Lukacs che una notte lo invita alla capitolazione in attesa di tempi migliori:

“Soprattutto non fatevi stupidamente deportare per nulla, per il rifiuto di una piccola umiliazione, per il piacere di votare a sfida… credetemi, le vessazioni non hanno grande importanza per noi. I rivoluzionari marxisti hanno bisogno di pazienza e di coraggio; non hanno affatto bisogno di amor proprio. L’ora è cattiva, siamo a una svolta oscura. Risparmiamo le nostre forze: la storia farà ancora appello a noi”(11).

Dall’osservatorio privilegiato di Berlino e Vienna osserva con l’attenzione minuziosa del cronista il fallimento di un moto insurrezionale male organizzato e peggio diretto dagli emissari di un’Internazionale comunista sempre più burocratizzata e ne stigmatizza, in quel piccolo capolavoro di giornalismo militante che sono le Notes d’Allemagne, gli esiti infausti per la ripresa della rivoluzione in Occidente. Non sorprende, dunque, la sua adesione all’Opposizione di sinistra di cui, una volta tornato in Russia, viene chiamato a far parte prima del comitato direttivo di Leningrado e poi della commissione internazionale del Centro Nazionale di Mosca. In questa veste egli si occupa di far conoscere all’estero i termini politici reali dello scontro in atto nel partito, scrivendo dal febbraio all’agosto del 1926 una serie di articoli sui problemi economici e politici dello Stato sovietico, che appariranno sulla rivista francese La Vie ouvrière (12).

Nel 1927 la situazione precipita. Il fallimento della rivoluzione cinese a causa della politica opportunista di Stalin e l’acutizzarsi della crisi della NEP determinano un brusco acutizzarsi dello scontro nel partito. A dicembre il XV Congresso delibera l’espulsione degli oppositori, all’inizio del 1928 iniziano gli arresti di massa dei trotskisti che vengono deportati in appositi campi di concentramento, i cosiddetti “isolatori”. Lo stesso Trotsky è espulso dal partito e deportato a Alma Ata nel cuore dell’Asia Centrale. Victor Serge, che non ha mai cessato di battersi scrivendo tra l’altro un acutissimo pamphlet su Le lotte di classe nella rivoluzione cinese in cui denuncia le gravissime responsabilità della direzione staliniana nel soffocamento dei moti operai di Canton e Shanghai, è arrestato in marzo. L’arresto fa scalpore, il suo è un nome troppo conosciuto.A Parigi molti intellettuali protestano e la cosa finisce sui giornali. Allarmato, il regime è costretto a liberarlo dopo un paio di mesi, accontentandosi di un suo impegno a non svolgere per il futuro “attività antisovietica”.

Isolato, circondato da spie e provocatori, totalmente disilluso sulle possibilità reali dell’Opposizione di sinistra di svolgere un’efficace azione politica dalla clandestinità, Serge si impegna in una resistenza solitaria e tenace, carcando di non farsi abbattere dalle avversità, dalla miseria, dalla quotidiana lotta per la sopravvivenza sua e dei suoi familiari, essendogli come per gli altri oppositori preclusa ogni possibilità di impiego regolare. Ma più di tutto pesa l’incapacità di fare i conti con la realtà, di tirare un bilancio definitivo della tragica parabola della rivoluzione e del partito, un coraggio che farà difetto anche a un combattente come Trotsky che dall’isolamento di Alma Ata continua a mostrarsi fiducioso nelle possibilità di un recupero del partito e dell’internazionale:

“Nessuno consentiva a vedere il male così grande come era. Che la controrivoluzione burocratica fosse giunta al potere e che un nuovo Stato dispotico stesse uscendo dalle nostre mani per schiacciarci, riducendo il paese al silenzio assoluto, nessuno, nessuno tra noi voleva ammetterlo. Dal fondo del suo esilio di Alma Ata, Trotsky sosteneva che questo regime rimaneva il nostro, proletario, socialista, benchè malato; il partito che ci scomunicava, ci imprigionava, cominciava ad assassinarci, restava il nostro e continuavamo a dovergli tutto; non bisognava vivere che per lui, non potendosi servire la rivoluzione che per mezzo suo. Eravamo vinti dal patriottismo di partito; questo suscitava la nostra ribellione e ci schierava contro noi stessi”(13).

Escluso dal partito, impedito nel suo lavoro di giornalista militante, strettamente sorvegliato dalla polizia politica, a partire dal 1928 Serge si dedica assiduamente alla letteratura a cui aveva rinunciato nel 1919 in quanto “cosa ben secondaria in una simile epoca”. Ma ora le cose sono cambiate. La rivoluzione si è spenta a poco a poco, i margini di azione politica sono andati progressivamente riducendosi fino a scomparire. “Solo quando sono stato costretto a un’assoluta passività esterna”, scriverà all’amico Marcel Martinet  nel settembre del 1930, “sono tornato all’espressione letteraria, che ora comincia ad appassionarmi… Sempre di più penso che bisogna ricominciare tutto dalla base, quindi, sotto un certo profilo, dalla formazione dei caratteri. Da questo punto di vista, dei libri sinceri e veritieri possono essere utili” (14).

Serge vive dunque la creazione letteraria non come fuga da un presente ingrato, ma come diretta prosecuzione con altri mezzi e in un contesto radicalmente mutato di un impegno “improntato a rigorosi principi etici e politici, in primo luogo alla ricerca e alla difesa della verità, irriducibile a qualsivoglia ragione di Stato o di partito”(15). Vicino anche in questo campo alle posizioni di Trotsky, espresse nel 1924 in Letteratura e rivoluzione, egli impronta l’intera sua produzione al principio per cui “la letteratura, se vuole compiere nella nostra epoca tutta la sua missione, non può chiudere gli occhi sui problemi interni della rivoluzione”(16). Il romanzo, dunque, come strumento pedagogico, come forma privilegiata di conservazione di una memoria storica al di fuori della quale non esiste possibilità di riscatto. E’ in quest’ottica che Serge, che pure proprio in questo periodo sta portando a termine una delle sue opere più significative, quel L’anno I della Rivoluzione russa destinato a diventare con I dieci giorni… di John Reed e La storia della rivoluzione di Trotsky un classico della storiografia militante, abbandona di fatto la ricerca storica per la narrativa:

“Il lavoro storico non mi soddisfaceva interamente…. non permette di mostrare sufficientemente gli uomini vivi, di smontare il loro meccanismo interno, di penetrare nella loro anima. Una certa luce sulla storia non può essere gettata, ne sono persuaso, altro che dalla creazione letteraria libera e disinteressata… Io concepivo…lo scritto… come un mezzo di esprimere per gli uomini ciò che i più vivono senza sapere esprimere, come un mezzo di comunione, come una testimonianza sulla vasta vita che fugge attraverso di noi e di cui dobbiamo tentare di fissar gli aspetti essenziali per coloro che verranno dopo di noi”(17).

Vedono così la luce uno dopo l’altro i romanzi del cosiddetto “ciclo della rivoluzione”, tentativo di narrare attraverso le vicende di uomini e luoghi l’intero ciclo di lotte di classe che va dall’Affare Bonnot all’Ottobre, dalla dolente descrizione del mondo carcerario e delle relazioni fra gli uomini che lo abitano de Gli uomini nella prigione, all’affresco corale di Nascita della nostra forza,  rievocazione dell’ascesa “dell’idealismo rivoluzionario attraverso l’Europa devastata del 1917-1918”,(18) per concludere con il disincantato e splendido La città conquistata dove egli tira un amaro bilancio della rivoluzione come necessità che sovrasta l’individuo e che in qualche modo si nutre dei suoi sogni e delle sue speranze privandolo dell’innocenza:

“Il mondo è da rifare. Per questo bisogna vincere, resistere, sopravvivere ad ogni costo. Più saremo duri e forti, meno verrà a costare. Duri e forti anzitutto verso noi stessi. La rivoluzione è un’impresa che va realizzata sino in fondo senza debolezze. Noi siamo soltanto gli stumenti di una necessità che ci trascina, ci travolge, ci esalta e sicuramente passserà sui nostri corpi. Noi non inseguiamo nessun sogno di giustizia, noi facciamo ciò che deve essere fatto, ciò che non può non essere fatto” (19).

Nella mezzanotte del secolo

Nuovamente arrestato, Serge viene trasferito a Mosca e poi condannato a tre anni di deportazione in  “quel modesto succedaneo dell’inferno”(20) che è tornata ad essere la Siberia sotto Stalin. Ridotto in estrema miseria, Serge resiste alla disperazione scrivendo due nuovi romanzi, Gli uomini perduti e La tormenta, e preparando la prima stesura de L’anno II della rivoluzione russa. Tutti materiali destinati ad andare persi al momento della sua liberazione. L’arresto e la deportazione dello scrittore non passano sotto silenzio. In Francia si sviluppa una forte campagna in suo favore, persino intellettuali vicini allo stalinismo come Romain Rolland o  considerati “amici dell’URSS” come André Gide si mobilitano premendo sulle autorità sovietiche perché lo scrittore venga liberato. Ma è solo nel 1936, alla scadenza della pena, che Serge è liberato ed espulso dall’URSS assieme alla sua famiglia.

Il 18 aprile 1936 Serge arriva a Bruxelles e si dedica subito ad un’intensa attività pubblicistica. In pochi mesi apparvero un opuscolo sui processi di Mosca,  un bilancio sulla rivoluzione russa a due decenni dall’Ottobre e numerosi articoli su pubblicazioni della sinistra rivoluzionaria e sul quotidiano socialista di Liegi, La Wallonie. Inizia anche una collaborazione con Trotsky, allora esule in Norvegia, che fin dall’inizio appare non facile. A differenza di molti sostenitori del “vecchio”, in genere giovani intellettuali giunti da poco alla politica militante, Serge non si sente schiacciato dal carisma debordante del fondatore dell’Armata Rossa e non rinuncia a rimarcare le differenze di visione sulla Spagna e sul Poum o sul Fronte popolare francese, anche se con grande onestà intellettuale saprà riconoscere, una volta verificatasi la rottura definitiva, le ragioni del suo interlocutore:

“Trotsky mi scriveva dalla Norvegia che tutto ciò avrebbe condotto a disastri e io avevo torto di dargli torto: vedeva giusto e lontano in quel momento”(21).

Nonostante queste differenze, Serge si mantiene vicino al movimento trotskista, tanto da essere invitato alla cosiddetta Conferenza di Ginevra che si tiene nel luglio 1936 in preparazione della costituzione formale della Quarta Internazionale.  Ma la sua attività non esaurisce nell’ambito del trotskismo, assieme a intellettuali critici e a vecchi militanti operai del calibro di André Breton, Marcel Martinet, Magdeleine Paz, Pierre Monatte, Alfred Rosmer, Maurice Dommanget, Daniel Guérin e altri, costituisce un Comitato per l’inchiesta sui processi di Mosca e per la difesa della libertà d’opinione nella Rivoluzione che tenta di spezzare la cortina di silenzio sui crimini dello stalinismo e di controbattere in qualche modo la martellante campagna di menzogne sull’URSS patria del socialismo e principale baluardo antifascista frutto congiunto della propaganda dei PC staliniani e di un’intellettualità “progressista” asservita alla controrivoluzione. Fin dall’inizio Serge ha ben chiaro il filo conduttore che lega la politica staliniana e unisce fenomeni per molti versi sconcertanti come le grandi purghe in URSS o la politica controrivoluzionaria in Spagna. Può così prevedere con largo anticipo, dopo il primo grande processo dell’agosto, i processi che seguiranno e indicare persino i nomi dei futuri condannati a morte:

“Comprendevo – nota nelle sue Memorie– che era il principio dello sterminio di tutta la vecchia generazione rivoluzionaria… Perché questo massacro, mi domandavo nella Révolution Prolétarienne, e non gli vedevo altra spiegazione che la volontà di sopprimere i gruppi di ricambio del potere alla vigilia di una guerra considerata imminente. Stalin, ne sono persuaso, non aveva strettamente premeditato il processo, ma egli vide nella guerra civile di Spagna il principio della guerra europea…Una orribile logica ha presieduto all’ecatombe…Assassinati i primi bolscevichi, bisognava evidentemente assassinare gli altri, diventati testimoni incapaci di perdonare. Bisognò pure, dopo i primi processi, sopprimere coloro che li avevano montati e ne conoscevano i retroscena, al fine che la leggenda creata diventasse credibile. Il meccanismo dello sterminio era così semplice che si poteva prevederne la marcia”(22).

Liquidata la vecchia guardia bolscevica, la controrivoluzione non si ferma, ma investe direttamente l’opposizione marxista rivoluzionaria ovunque questa cerchi di organizzarsi. Nella primavera del 1937, soffocata nel sangue la Comune di Barcellona, gli staliniani procedono alla liquidazione sistematica dei poumisti e degli anarchici. Nel settembre a Losanna viene assassinato da sicari al soldo di Stalin l’ex dirigente della GPU Ignat Reiss da poco passato con l’opposizione trotskista. Nel febbraio dell’anno successivo muore a Parigi in circostanze mai chiarite il figlio di Trotsky, Leva Sedov, mentre in luglio viene rapito e assassinato Rudolf Klement, segretario organizzativo della Quarta Internazionale. E’ una vera e propria guerra di sterminio che non risparmia nessuno e a cui Serge cerca  di opporsi come può, pubblicando su La Révolution prolétarienne una rubrica di denuncia dei crimini staliniani,“Cronaca del sangue versato”, e dando alle stampe due nuove opere, Da Lenin a Stalin e Destino di una rivoluzione, in cui, riprendendo sostanzialmente le tesi sviluppate da Trotsky in La rivoluzione tradita,  traccia un bilancio ancora ”ortodosso” dell’esperienza sovietica. Nonostante la violenza rivoltante del Termidoro staliniano, per Serge l’URSS resta ancora uno Stato operaio grazie alla proprietà statale dei mezzi di produzione e alla pianificazione. Proprio per questo  la controrivoluzione burocratica è spietata, come in E’ mezzanotte nel secolo, un altro grande romanzo apparso nel 1938, il deportato Ryzik chiarisce agli altri detenuti demarcando con triste orgoglio il confine fra i militanti bolscevichi perseguitati, ma non vinti e i nuovi padroni:

“Sanno quello che siamo e cosa sono essi stessi… Nessuno è più pratico, più cinico e più lesto a risolvere tutto con l’omicidio, dei plebei privilegiati che sopravvivono alle rivoluzioni… Nasce una nuova piccola borghesia con i denti aguzzi, che ignora il significato della parola coscienza, si prende gioco di ciò che ignora, vive di energie e di slogan d’acciaio e sa molto bene di averci rubato le vecchie bandiere… E’ feroce e vile. Noi siamo stati implacabili per trasformare il mondo, loro lo saranno per conservare il bottino. Noi davamo tutto, anche quello che non avevamo, il sangue degli altri assieme al nostro, per un futuro sconosciuto. Loro sostengono che ogni cosa è compiuta purchè non gli si chieda niente; e per loro ogni cosa è realmente compiuta visto che hanno tutto. Saranno inumani per vigliaccheria”(23).

E’ mezzanotte nel secolo, redatto fra il 1936 e il 1938,  rappresenta la prima di una serie di opere dedicate da Serge a ricostruire gli esiti tragici di una generazione rivoluzionaria “logorata dalle lotte, spezzata dalla macchina totalitaria che –ed è una delle avventure più tragiche che la storia conosca- essa stessa, senza volerlo e senza rendersene conto, ha costruito con le proprie mani”(24). Il romanzo esce in Francia nel 1939, fra il crollo della repubblica spagnola e lo scoppio della seconda guerra mondiale e racconta la storia, trasposizione letteraria della drammatica esperienza di deportazione vissuta dall’autore, di un gruppo di trotskisti irriducibili confinati in un lager dell’estremo Nord. Il periodo che intercorre fra la stesura e la pubblicazione del romanzo segna un momento cruciale nell’evoluzione politica di Serge  che proprio in quei mesi rompe definitivamente con Trotsky e con la Quarta Internazionale in cui non aveva mai riposto alcuna speranza:

“Da quest’epoca data pure la mia rottura con Trotsky. Mi ero tenuto al di fuori del movimento trotskista, in cui non ritrovavo le aspirazioni dell’opposizione di sinistra in Russia a un rinnovamento delle idee, dei costumi e delle istituzioni del socialismo. Nei paesi che conoscevo, in Belgio, in Olanda, in Francia, in Spagna, gli infimi partiti della IV Internazionale, lacerati da frequenti scissioni e, a Parigi, da lamentevoli litigi, costituivano un movimento debole e settario, in cui, mi pareva, nessun pensiero nuovo poteva nascere… L’idea stessa di fondare un’Internazionale nel momento in cui tutte le organizzazioni internazionali socialiste soccombevano, in piena ondata di reazione e senza appoggi da nessuna parte, mi pareva insensata”(25).

Partito da una critica contingente ai limiti dell’Opposizione di sinistra, Serge progressivamente allarga il suo campo di indagine all’intero percorso politico del  bolscevismo a partire dalla rivoluzione d’Ottobre con l’intento di individuare quei fattori che hanno in qualche modo favorito lo sviluppo del totalitarismo staliniano. Il punto di rottura viene concretamente individuato nel “terribile episodio” di Kronstadt e nella creazione della Ceka, per Serge gravissimi errori  in quanto “incompatibili” con il socialismo. Fermamente convinto dell’assoluta necessità etica e politica di superare la discrasia fra fini e mezzi che gli pare sostanziare l’intera esperienza bolscevica, Serge  chiede al movimento trotskista un pronunciamento aperto sul tema della democrazia. La risposta è raggelante. Trotsky rifiuta sprezzantemente di confrontarsi con posizioni che ritiene nulla più di una “manifestazione di demoralizzazione piccoloborghese”. Per lui Serge, scambiando la sua crisi personale per quella del marxismo,  cerca di unire marxismo anarchismo e poumismo in una sintesi priva di qualsiasi valenza politica. E’ una critica che non lascia spazio a mediazioni di sorta. La frattura non verrà ricomposta e un anno più tardi l’assassinio del “vecchio” chiuderà definitivamente la questione. Nelle sue Memorie, rievocando questo episodio, Serge si esprimerà nei riguardi di Trotsky con enorme rispetto e con un affetto quasi filiale che non nasconde, tuttavia, una radicale critica politica:

“Sui problemi dell’attualità russa riconoscevo a Trotsky chiaroveggenza e intuizioni stupefacenti… Lo vedevo mescolare con i lampi di un’alta intelligenza, gli schematismi sistematici del bolscevismo d’altri tempi, di cui credeva la risurrezione inevitabile in ogni paese. Comprendevo quel suo irrigidirsi di ultimo superstite di una generazione di giganti, ma, convinto che le grandi tradizioni storiche non si continuano altrimenti che attraverso i rinnovamenti, pensavo che il socialismo debba pure rinnovarsi nel mondo moderno; e che ciò debba accadere mediante l’abbandono della tradizione autoritaria e intollerante del marxismo russo dell’inizio di questo secolo”(26).

In un mondo senza perdono

Lo scoppio della guerra lo coglie a Parigi. Il 10 giugno 1940, poco prima dell’entrata dei tedeschi nella capitale, egli parte con i propri familiari per Marsiglia, da lì con grande fatica dopo infinite peripezie riesce ad ottenere un visto per il Messico dove giunge nel settembre dopo un viaggio avventuroso di cinque mesi che ha toccato la Martinica, San Domingo e Cuba. L’esperienza, prima della fuga dalla Francia occupata e poi dell’esilio messicano, è terribile e segna profondamente Serge accentuandone quella vena di amarezza che già aveva manifestato nei suoi ultimi scritti. Rivoluzionario senza partito, odiato dagli stalinisti, respinto dai trotskisti, egli è costretto a bere fino in fondo l’amaro calice di un isolamento quasi totale. “Noi viviamo –scrive dal Messico all’amicoAntoine Borie- del tutto isolati… le persone vivendo per gruppi nazionali, ogni solidarietà essendosi dissolta”.27 “Ci si salva d’altronde per famiglie politiche, i gruppi non servono più ad altro che a questo. Tanto peggio per il fuori partito che si è permesso di pensare solo…” (28).

Nell’esilio messicano Serge si dedica totalmente ad una intensissima attività letteraria. Mentre redige le sue Memorie, collabora attivamente con riviste europee e nordamericane e scrive gli ultimi suoi romanzi, Il caso Tulaev, Gli ultimi tempi e Anni spietati. Dedicato al tema dei grandi processi staliniani degli anni Trenta e delle confessioni degli esponenti della vecchia guardia bolscevica che si erano autoaccusati di ogni sorta di crimine contro il potere sovietico, Il caso Tulaev ricostruisce dal di dentro con una precisione assoluta il clima di terrore e di menzogna sviluppatosi in URSS a partire  dall’assassinio di Kirov e culminato nelle gigantesche purghe che spazzano via quello che resta del vecchio partito bolscevico. Pubblicato in Francia soltanto nel 1948, un anno dopo la morte di Serge, il romanzo, che egli considerava il suo libro migliore, và a confondersi con i primi segnali della guerra fredda e della propaganda antisovietica tanto da far attribuire al suo autore l’etichetta falsa di sostenitore del “mondo libero” e di anticomunista. In realtà, pur da posizioni estremamente critiche, Victor Serge si considererà sempre un marxista, anche se il suo marxismo assume col tempo una sempre più marcata connotazione umanistica a cui non è estraneo un crescente interesse verso la psicologia considerata “la scienza rivoluzionaria dei tempi totalitari”. Seppur critico verso ogni forma di dogmatismo e assertore convinto, anche se confuso, della necessità di un radicale rinnovamento della teoria, Serge non rifluisce sulle giovanili convinzioni libertarie, né aderisce, nonostante qualche momentanea debolezza, ad un’illusoria terza via tra capitalismo e comunismo, ma fino all’ultimo  si dichiara apertamente a favore della validità del metodo marxiano:

“Il concetto di lotta di classe spiega la storia degli ultimi vent’anni con un’esattezza illuminante; ciò significa che essa è intellegibile solo alla luce del marxismo. Soltanto il marxismo ci permette di capire la sconfitta del socialismo in Europa…Le sconfitte del movimento socialista non sono necessariamente sconfitte per il marxismo…Il fatto indiscutibile che siamo sconfitti non deve scoraggiarci troppo se riusciamo a comprendere perché e come siamo stati sconfitti”(29).

Altrettanto coerente è la sua posizione verso il bolscevismo. Serge non sarà mai, nonostante le ingenerose critiche di Trotsky,  un rivoluzionario pentito. Certo, le sue posizioni cambiano, evolvendo dall’originale condivisione della tesi trotskiana dell’URSS stato operaio degenerato ad una concezione, poco definita e in gran parte giocata sul piano sovrastrutturale, dello stato sovietico come totalitarismo, per approdare infine, durante  gli anni della guerra, al tentativo di fondere, con esiti peraltro notevolmente confusi, le teorie fra loro inconciliabili del capitalismo di stato e del collettivismo burocratico. Ciononostante, a differenza di molti altri intellettuali impegnati che nel dopoguerra si schiereranno a fianco del Dipartimento di Stato nella crociata anticomunista, Serge anche quando si sposta in qualche modo verso destra mantiene un profondo legame emozionale con la rivoluzione russa e la sua esperienza di militante prima del partito di Lenin e poi dell’Opposizione di sinistra, tale da ricondurlo sempre su posizioni inconciliabili con l’ordine borghese (30). Sicchè il valore dell’intera opera di Serge non consiste solo nell’essere un documento storico-politico pressochè unico, ma nella riaffermazione della validità di un ideale rivoluzionario in cui politica e morale possano coesistere. In quest’ottica la sua critica, talvolta anche aspra, al “giacobinismo” esasperato di Lenin e Trotsky si stempera in un più meditato bilancio secondo cui “né l’intolleranza né l’autoritarismo dei bolscevichi (e della maggior parte dei loro avversari) consentono di mettere in questione la loro mentalità socialista e le acquisizioni dei primi dieci anni della rivoluzione… Resta il fatto che la resistenza della generazione rivoluzionaria, alla testa della quale si trovava la maggior parte dei vecchi socialisti bolscevichi, fu così tenace che, nel 1936-1938, all’epoca dei processi di Mosca, questa generazione dovette essere sterminata interamente perché il nuovo regime potesse stabilizzarsi. Fu il colpo di forza più sanguinoso della storia. I bolscevichi perirono a decine di migliaia… i più grandi campi di concentramento del mondo si incaricarono dell’annientamento fisico di masse di condannati”(31).

“Serge – commenta il suo maggiore studioso italiano- conosce troppo bene, per averla vissuta dall’interno, la parabola della rivoluzione per ignorare che la degenerazione burocratico-totalitaria non è il prodotto fatale di un’ideologia, bensì il risultato del progressivo isolamento della rivoluzione nei confini di un paese arretrato, e per dimenticare che l’amalgama tra la Russia di Lenin e quella di Stalin è priva di qualsiasi fondamento, giacchè lo stalinismo ha potuto affermarsi sul terreno della rivoluzione solo soffocando la rivoluzione stessa, negandone i presupposti, vanificandone i fini e massacrando un’intera generazione di rivoluzionari. In definitiva, si può affermare che tutta l’opera di Serge, proprio quando più aspra e serrata si fa la critica degli orrori dello stalinismo, testimonia a favore della rivoluzione e non contro di essa”(32).

Victor Serge muore il 17 novembre 1947, stroncato da un infarto in un taxi di Città del Messico. A lui ben si addicono, quasi a rappresentare un ideale testamento, le parole di uno dei suoi personaggi: “Scomparendo, non   stabiliamo il bilancio del disastro, ma testimoniamo la grandezza d’una vittoria che ha anticipato troppo il futuro e chiesto troppo agli uomini” (33).

Savona, dicembre 1999
Notas

1  V. Serge, Memorie di un rivoluzionario, La Nuova Italia, Firenze 1956, p.3.
2  E. Santarelli, «Nuovi studi su Victor Serge», Bandiera Rossa, n.24, aprile-maggio 1992.
3  M.L. Salvadori, «Victor, testimone della bufera», La Stampa del 21/9/1983.
4  V. Serge, Memorie…, cit., p. 9.
5  Ibidem, pp.12-13.
6  Ibidem, p.28.
7  Ibidem, pp.111-112.
8  V. Serge, Gli anarchici e l’esperienza della rivoluzione russa,  Jaca Book, Milano 1969, p.17.
9  V. Serge, Memorie…, cit., p.194.
10 Ibidem, pp.257-258.
11 Ibidem, p.282.
12 P. Casciola, Victor Serge (1890-1947), introduzione a V. Serge, Ritratto di Stalin, Erre emme, Roma 1991, p.18.
13 V. Serge, Memorie…, cit., p.356.
14 V. Serge, lettera a Marcel Martinet, 17 settembre 1930.
15 A. Chitarin, Introduzione a V. Serge, La città conquistata, Manifestolibri, Roma 1994, p. 8.
16 V. Serge, Letteratura e rivoluzione, Celuc Libri, Milano 1979, p.74.
17 V. Serge, Memorie…, cit., pp.381-382.
18 V. Serge, lettera a Marcel Martinet, 20 febbraio 1931, Rivista di storia contemporanea, n.3, ottobre 1978.
19 V. Serge, La città conquistata, Manifestolibri, Roma 1994, p.44.
20 V. Serge a H. Poulaille, lettera del 7 agosto 1934, in Rivista di storia contemporanea, cit.
21 V. Serge, Memorie…, cit., p.484.
22 Ibidem, p.486.
23 V. Serge, E’ mezzanotte nel secolo, Edizioni e/o, Roma 1980, p. 122.
24 F. Lefevre, intervista con Victor Serge, La Wallonie, 30 gennaio 1940.
25 V. Serge, Memorie…, cit., p.514.
26 Ibidem, pp.514-515.
27 V. Serge, Lettres a Antoine Borie, Témoins. Cahiers indépendants, Zurich, Février 1959, p.10.
28 V. Serge, Memorie…, cit., p.535.
29 V. Serge, Socialismo e totalitarismo, Prospettiva Edizioni, Roma 1997, pp.81-82.
30 A. Wald, «Victor Serge et la Gauche anti-stalinienne de New York 1937-47», Cahiers Léon Trotsky, n.35, septembre 1988, p.16.
31 V. Serge, La crisi del sistema sovietico, Edizioni Ottaviano, Milano 1976, pp. 210-212.
32 A. Chitarin, Introduzione a V. Serge, Il caso Tulaev, Bompiani, Milano 1980, p.XIII.
33 V. Serge, Il caso Tulaev, cit., p.429.

El POUM en la memoria . Andalucia Libre.2005

«La dirección del Partido oficial (el PCE) no ha hecho nada absolutamente por crear en Vasconia, en Galicia y en Andalucía un movimiento de independencia nacional íntimamente ligado a la clase obrera revolucionaria (…) Nosotros somos partidarios ardientes de la independencia de Cataluña, de Euskadi, de Galicia, de Andalucía, etc. La burguesía no ha podido hacer la unidad ibérica. Ha mantenido la cohesión mediante un régimen de opresión constante. España, que no es una nación sino un Estado opresor, debe ser be ser disgregada». Carta abierta de la Federación Comunista Catalano-Balear al Comité Ejecutivo de la Internacional Comunista, La Batalla, 1 de Mayo de 1931.

[Citada en Grandizo Munis, «Jalones de Derrota, Promesa de Victoria. Critica y Teoría de la Revolución española (1930-1939)», Zero Zyx, Madrid, 1977, pags. 70-71; Víctor Alba, «Dos Revolucionarios: Andreu Nin y Joaquín Maurin», Madrid, 1975, Págs. 133-134; Andrew Charles Dugan, «BOC 1930-1936, El Bloque Obrero y Campesino», Laertes, Barcelona, 1996, pag. 105]

La cita anterior no pretende en absoluto describir cual fue la posición del POUM sobre la cuestión nacional en general y la andaluza en particular.

De hecho, las brillantes intuiciones políticas que contenía este documento de 1931 -cronológicamente el primero que conocemos expresamente favorable a la independencia andaluza- quedaron sin continuidad. Hecho publico sólo quince días después de las proclamaciones de la República Catalana -reconvertida por Macià en Generalitat autónoma- y de la II República Española, sus posiciones fueron pronto matizadas en junio de 1931 por la FCC-B a traves de su líder y portavoz Joaquim Maurin, en un sentido favorable a la «separación para la libre unión». Las referencias al problema nacional de Andalucía desaparecieron de los textos de la FCC-B y de sus sucesores, Federación Comunista Ibérica y Bloque Obrero y Campesino; ausencia a la que quizá coadyuvaron tanto su evolución general en esta cuestión como su carencia de implantación en nuestra Nación así como las debilidades políticas del movimiento andalucista histórico de Blas Infante. El BOC, presente básicamente en Cataluña -donde era la principal fuerza política socialista y competía con ERC y CNT- centró lógicamente desde 1932 su atención en este tema en la elaboración de sucesivas actualizaciones tácticas ante la cuestión catalana, al hilo de la complejísima evolución de la situación política y social en este periodo revolucionario. Además, también hay que hacer constar que en su momento su formulación y defensa por la FCC-B provocó muy duras respuestas por parte de Andréu Nin y de la ICE, en términos más afines a los que entonces -y ahora- se entendía por «ortodoxia leninista». (La ICE sí que tenía presencia en Andalucía, contando con organizaciones locales -que luego fueron del POUM- en Sevilla, Cádiz, Gerena, Guadalcanal, Algeciras, Jaén y Fuensanta de Martos y en la vecina Llerena, exterminadas todas por los franquistas) (1).

Si hemos recuperado ahora este aspecto parcial de la «prehistoria» del POUM es para llamar la atención a su traves sobre el riquísimo caudal de perspectivas que encierra el conocimiento de la trayectoria de las dos corrientes revolucionarias que, configuradas en torno a 1930, confluyeron en su formación en septiembre de 1935: la Izquierda Comunista, sección de la Oposición de Izquierda y el Bloque Obrero y Campesino. Enseñanzas que no se agotan en absoluto en el nivel teórico de sus elaboraciones ni en el interés de sus aportaciones en el terreno del análisis o en el caudal informativo y polémico aportado por las discusiones cruzadas entre sí, con Trotsky y la Oposición de Izquierda Internacional o con otras organizaciones de la izquierda, sean los diversos nacionalistas de izquierda, los estalinistas del PCE o las diferentes corrientes del socialdemócrata PSOE o del movimiento anarco-sindicalista. El BOC y la IC fueron dos organizaciones militantes que durante la etapa republicana desarrollaron con honestidad el intento de construir una estrategia revolucionaria acorde a la situación en la que les tocó operar, defendiendo en la practica un proyecto socialista revolucionario coherente. Así es obligado recordar que sin su trabajo e influencia social, sindical y política no es posible entender -por ejemplo- la formación de las Alianzas Obreras que encabezarían las insurrecciones de Asturias y Cataluña en 1934 o fenómenos políticos de importancia como el origen, alcance y limites de la radicalización del PSOE-UGT entre 1933 y 1936 ante el ascenso de la amenaza fascista y la crisis terminal del régimen republicano.

Llegado 1936, el POUM constata que la alternativa está planteada entre fascismo y socialismo. En condiciones muy difíciles, intenta articular su inmersión en la masiva corriente de respuesta popular unitaria con aspiraciones democrático-socialistas que se plasma en el triunfo de la coalición obrera-republicana en las elecciones de febrero -una vez que no consigue que se de un frente de izquierdas socialistas sin adherencias azañistas- combinándola con el impulso y centralización del vigoroso movimiento obrero y popular que se expresa en esas fechas a partir de la victoria electoral, con multitud de huelgas y ocupaciones de tierras. Denuncia que mientras esto ocurre, se gesta y extiende la conspiración militar-fascista, alertando ante la pasiva connivencia del Gobierno republicano del Frente Popular. Luego de que la movilización revolucionaria derrote el golpe militar en Julio y abra paso a la guerra civil, el POUM intentará que la vinculación entre «Guerra y revolución/Revolución y guerra» se mantenga, entendiendo esta conexión como única vía para la victoria; sufriendo, primero, las consecuencias de su condición minoritaria ante la CNT y la izquierda largocaballerista del PSOE y luego, la embestida directa del Frente Popular (ERC, republicanos Azañistas, derecha prietista del PSOE y gubernamentales de la CNT) a traves del ariete del estalinista PCE-PSUC. Tras las primeras escaramuzas contra el POUM de Madrid en noviembre de 1936, el estallido de la provocación de las Jornadas de Mayo de 1937 en Barcelona y la ulterior capitulación de la CNT, el Régimen republicano ilegalizará al POUM buscando con ello abrir paso franco a la liquidación de las conquistas revolucionarias de Julio de 1936 y reinstaurar el descompuesto régimen de la II República.

A avalar ese objetivo, encubriéndolo tras calumnias, responde el intento de trasmutar al POUM en una «agencia de espionaje franquista», faena a la que se dedican con virulencia el PCE-PSUC. Siguiendo la técnica de los Procesos de Moscú -denunciados valientemente por el POUM en su prensa- agentes de la policía secreta soviética en colaboración con estalinistas españoles secuestran a Andréu Nin, secretario político del POUM, para intentar arrancarle una confesión de su presunta «traición». La heroica resistencia a las torturas de Nin lleva a su asesinato y desaparición y el escándalo internacional subsiguiente salva a los otros detenidos del POUM de similar destino, pese a su condena judicial, que los mantendrá, no obstante, en prisión hasta el avance franquista, cuando aprovechan la confusión para evadirse.

En medio de una desmoralización general creciente en el campo popular, el POUM se reconstruye en la clandestinidad, reanudando su trabajo que persistirá en la resistencia tras la victoria franquista, recomponiendo una seria organización ilegal en Cataluña y Madrid.

En 1945 el POUM sufrirá la escisión de una parte de su organización catalana que dará lugar a la formación del Moviment Socialista de Catalunya (MSC), organización que defiende la formación de una nueva socialdemocracia catalana. En plena guerra fría e influidos por ese contexto, abandonaran también el POUM del exilio otros antiguos militantes que pasaran del antiestalinismo a la «estalinofobia». En 1952, el POUM resentirá los efectos de una amplia caída de militantes del interior, detenidos por la policía franquista, quedando reducido en la practica a una organización del exilio, desde donde desarrolla en adelante tareas de propaganda, infraestructura y apoyo a las fuerzas antifranquistas del interior. Durante los últimos años del franquismo, la incorporación de algunos nuevos jóvenes militantes llevará a un intento frustrado de reconstrucción política del POUM en el interior como organización de izquierda revolucionaria que -aparte de otras dificultades- tendrá que sobrellevar y superar los efectos de una operación paralela destinada a sumar la «imagen del POUM» en el haber de quienes pretenden reorganizar la socialdemocracia en Cataluña. Resuelto el envite, el nuevo POUM no conseguirá sin embargo sostenerse y terminará su actividad partidaria hacia finales de 1980 (no sin que antes, algunos militantes andaluces del POUM participen con otras fuerzas como FLA y JCA en la efímera formación del independentista Frente Andaluz de Liberación en 1979).

El Hilo Rojo

Las fuentes y obras ya accesibles nos permiten distinguir las actuaciones del momento de sus interpretaciones posteriores, incluso cuando estas son efectuadas por algunos de sus protagonistas y situar en su adecuado lugar las diferencias habidas incluso cuando toman forma virulenta. Lo más productivo es acercarse a ellas no a partir de previos alineamientos doctrinarios sino animados por la voluntad de saber y entender, intentando ponerse sinceramente en el lugar de aquellos y aquellas militantes del POUM que aún hoy, 70 años después, siguen mereciendo nuestro testimonio de respeto y admiración.

La reivindicación del POUM hoy va más allá del reconocimiento debido a una corriente militante que fue socialista revolucionaria y democrática -«cuando era media noche en el siglo»- y la más avanzada en su época en la comprensión desde la izquierda del problema nacional. No se limita al restablecimiento necesario de un hilo ético de continuidad honrosa, que trasciende el nivel de acuerdos y desacuerdos concretos posibles fruto de la evolución histórica o de las diferencias en perspectivas políticas. Es un ejercicio de justicia histórica que, sin requerir en absoluto identificación acrítica alguna, sino bien al contrario, sosteniéndose en el minucioso conocimiento de los hechos y en su intenso debate subsiguiente nos ofrece argumentos sobrados para contraponer en la polémica política actual a quienes aún hoy siguen, bien justificando explicita o vergonzantemente al Régimen franquista, bien -sea en versión socialdemócrata o zombiestalinista- ocultan la realidad histórica para presentar aquel periodo revolucionario como una simple confrontación entre «democracia-liberal» y «totalitarismo», desde la que justificar sus posteriores transacciones con los herederos del franquismo y su colaboracionismo con el Régimen actual.

Quede expresa nuestra consideración del POUM como experiencia militante histórica, que forma parte del patrimonio plural de quienes ahora, en pleno siglo XXI, luchan en Andalucía por la Independencia y el Socialismo.

Nota (1): Para datos de implantación en Andalucía de la ICE, ver Pelai Pages, «El Movimiento Trotskista en España (1930-1935)», Ediciones Península, Barcelona, 1977, pag. 90; Para datos de implantación del BOC y del POUM, ver: Andrew Charles Dugan, «BOC 1930-1936, El Bloque Obrero y Campesino», Laertes, Barcelona, 1996, Apendices pag. 535 y ss.

España y el anarquismo en Cuba (Carlos Estefania, 2000)

Artículo publicado originalmente en Iniciativa Socialista nº  59, invierno 2000-2001. Carlos M. Estefanía, disidente cubano residente en Suecia, es director de la revista electrónica Cuba Nuestra.

Los libertarios han luchado en Cuba contra toda suerte de regímenes despóticos, el de Batista no fue la excepción. Cientos de ácratas cubanos sufrieron persecución, tortura, muerte y exilio por su participación en acciones de protesta, incluso armadas, contra la dictadura. Entre los combatientes antibatistianos se encontraban numerosos anarquistas: Boris Luis Santa Coloma (muerto durante el ataque al Cuartel Moncada), Miguel Rivas (desaparecido), Aquiles Iglesias y Barbeito Álvarez (desterrados), así como Isidro Moscú, Roberto Bretau, Manuel Gerona, Rafael Cerra, Modesto Barbieta, María Pinar González, Dr. Pablo Madan, Plácido Méndez, Eulogio Reloba (y sus hijos), Abelardo Iglesias y Mario García (también con sus primogénitos). Todos ellos fueron encarcelados, y en casos torturados, incluso hasta la muerte, como ocurrió con Isidro Moscú. Los anarquistas estarían presentes en las guerrillas. En las de Oriente participarían Gilberto Liman y Luis Linsuaín. En las del Escanbray una de las principales figuras lo fue Plácido Méndez. La lucha urbana contó con el local de la Asociación Libertaria de La Habana como centro de reuniones conspirativas tanto para el 26 de julio como el Directorio Revolucionario.
La perspectiva libertaria sobre la naturaleza de la Revolución Cubana

A principios de los sesenta, la revista libertaria argentina «Reconstruir» publicó una serie de artículos extraordinariamente reveladores sobre la revolución cubana. Tales textos constituyen material de primera mano para interpretar, desde una perspectiva libertaria, el proceso socio-político que condujo al derrocamiento de Batista y comprender la esencia del nuevo régimen establecido. Se destacan los trabajos firmados por Justo Muriel, Gastón Leval, Augusto Souchy y especialmente los de Abelardo Iglesias, veterano de la Guerra Civil española y participante en la lucha antibatistiana. Entre las referencias especialmente importantes sobre el momento del triunfo revolucionario que nos ofrece Iglesias, están sus valoraciones en torno a los logros sindicales obtenidos por los obreros cubanos (de los que serían privados por su «Revolución») y una «lectura» de la apoteósica «Marcha sobre la Habana» de Fidel. Para Iglesias no fue más que una comedia copiada de la marcha de Mussolini sobre Roma. El costoso espectáculo, según Iglesias, no tenía sentido militar, el pueblo cubano ya se había liberado de Batista. Aquella era una simple ceremonia ostentadora del poder del nuevo caudillo.

Los textos publicados por Reconstruir develan el carácter policlasista, reformista y democrático que en sus orígenes tuvo la revolución cubana, así como la ausencia en el proceso, salvo en elementos muy aislados, del radical antinorteamericanismo y del prosovietismo puestos en boga por Fidel Castro después de sentirse firme en el poder. Lo que se desprende de estos artículos es que aquella no había sido una verdadera revolución obrero-campesina, y que tampoco había conducido al restablecimiento de las libertades civiles, ni a la creación de un sistema socialista; tras ella se violaban los derechos humanos más elementales y los trabajadores del campo y la ciudad continuaban alienados de los medios de producción, del mismo modo o peor de lo que habían estado antes.

A pesar de haber transcurrido más de 30 años, desde que se publicaron, estos artículos mantienen gran vigencia, particularmente los análisis de Iglesias sobre el funcionamiento de la nueva oligarquía gobernante, sus técnicas propagandísticas, de coacción y de movilización masiva.

Desgraciadamente, existe una sesuda «cubanología» parapetaba en ciertas universidades europeas y latinoamericanas que desconoce artículos como los de Reconstruir u otros trabajos que detallan la desnaturalización estalinista sufrida por la revolución cubana. Un proceso que se inició mucho antes de la confrontación (realmente provocada por Fidel Castro) con los Estados Unidos.

Nuestro hombre en La Habana

Los soviéticos descubrieron muy a tiempo en Fidel Castro un individuo con suficiente habilidad política como para atribuirse la victoria revolucionaria -que pertenecía en realidad al conjunto de las diversas fuerzas sociales que enfrentaron a Batista-. La imagen burgesa-latifundista del joven Castro evitó que los cubanos sospecharan lo que él mismo llegó a declarar en 1961, que había sido un marxista convencido (aunque inmaduro) desde los inicios de la lucha armada. Todas sus acciones y declaraciones políticas de aquella etapa estuvieron encaminadas a crear confusión acerca de su verdadera ideología. Hubo quien le atribuyó concepciones fascistas, otros anarquistas.

En la trampa de tomar a Castro por libertario han caído unos cuantos, incluso el jefe de propaganda del Partido Socialista Popular (partido de los estalinistas cubanos), Luis Mas Martín, quien intentó usar a Raúl Castro para influir en Fidel. Mas Martín todavía en 1959 opinaba que Fidel Castro era un anarquista cuyo odio a los Estados Unidos le llevaría a manos del Partido (comunista) sobre todo si los norteamericanos «seguían actuando de manera idiota» [Andrew]. Es muy probable que los estrategas soviéticos prefirieran mantener compartimentada la información sobre sus planes para Cuba entre la nueva mano derecha (KGB) y la vieja izquierda estalinista que ya estaba introducida en la Isla desde los años 20. Esto explicaría que tanto Mas Martín como otros dirigentes del PSP desconocieran los proyectos soviéticos para la revolución cubana.

El primer gobierno revolucionario tenía apariencia liberal. El presidente Manuel Urrutia, designado por Fidel Castro, había defendido en su condición de magistrado el derecho de Fidel Castro a rebelarse contra la dictadura de Batista, pero al mismo tiempo era un declarado opositor al imperialismo soviético, posición que compartía con numerosos militantes del 26 de Julio y de las demás organizaciones revolucionaria. Estos creían en Fidel, pero no así en Raúl Castro y Ernesto Che Guevara declarados filosoviéticos Muy pronto se demostró que aquel gobierno provisional no tenía verdadero poder. A los pocos meses el presidente Urrutia es obligado a renunciar por una maniobra que el mismo denominó. «e1 golpe de estado de 17 de Julio».

La penetración comunista fue denunciada por el comandante Huber Matos, jefe militar de Camagüey lo que le costaría la acusación de traidor y ser condenado a 20 años de prisión. Es en medio del proceso contra Matos que desaparece Camilo Cienfuegos, según el régimen producto de un «accidente aéreo». Pero existe otra versión la que nos ofrece, en «Reconstruir» el capitán Roberto Cárdenas, Jefe de la Base Aérea de Camagüey en el momento de la desaparición. Cárdenas era amigo personal de Camilo, había combatido contra la tiranía de Batista en la Columna 14, en la cual era jefe de su sección de espionaje:

«En realidad lo que había sucedido era que Camilo había sido muerto por el propio Fidel en el Palacio Presidencial, aproximadamente a las nueve y media de la noche del 27 de octubre, día que se celebró el mitin para pedir el fusilamiento de Húber Matos. Pepita Riera se encontraba presente en el Palacio presidencial durante la concentración donde las masas fueron excitadas para pedir el fusilamiento de Húber Matos. Hablaron Fidel, Raúl y Almeida a la multitud. Camilo no quiso hablar esa noche. Después recriminó a Raúl y dijo que era vergonzoso incitar a las masas a pedir el fusilamiento del comandante Matos, quien verdaderamente no era culpable de ningún delito. Raúl respondió lleno de ira, insultantemente y Camilo le dijo también en tono descompuesto que si seguía así lo iba a matar allí mismo. Hay otro testigo cuyo nombre no puede ser descubierto aún, que presenció la continuación de esta discusión. Según él las voces fueron subiendo de tono, hasta que súbitamente, se sintió un disparo, y a continuación otro más. Este testigo oyó a Raúl gritar: ¡Lo has matado! Esto sucedía en una de las habitaciones del Palacio Presidencial donde se habían reunido. Después llegó a nuestro conocimiento que Fidel necesitó esa noche asistencia médica, porque había tenido una crisis nerviosa y estaba histérico» [Cárdenas].

Como oficial de la Fuerza Aérea Rebelde y experimentado piloto, el capitán Cárdenas detectó una serie de incongruencias en la búsqueda de Camilo y organizó una investigación paralela. Asi dió con el avión de Camilo en una finca situada a 25 millas al sudeste de Camagüey, llamada «La Larga». Allí estaba la pequeña nave áerea escondida bajo pencas de guano y con las insignias cubiertas de pintura blanca [Cárdenas].

Camilo ha sido una de la figura cuyo carisma e ideología ambigua, unidos al color rojinegro del brazalete de los miembros del 26 de julio, ha contribuido a la confusión universal sobre la matriz libertaria de la revolución Cubana. El autor tuvo la oportunidad de tratar el tema en mayo de 1998, en una actividad de los anarcosindicalistas suecos, con el ácrata napolitano, Egno Carbone, quien citó un artículo aparecido en el periódico libertario italiano Humanita Nuova donde se señalaba a Camilo Cienfuegos como el espíritu libertario de la Revolución y la posibilidad de que Fidel lo hubiera mandado a matar.

Según el colega Frank Fernández, concienzudo historiador del anarquismo cubano, no existe prueba alguna de ideología anarquista en Camilo aunque se sabe que su padre militó en las filas libertarias durante la juventud. Por otra parte sabemos que el hermano de Camilo, Osmani, era miembro del PSP antes de la revolución y fue, hasta no hace mucho, uno de los dirigentes más importantes del régimen cubano. (¿conocería las revelaciones de Cárdenas sobre Camilo?).

Lo que si parece ser, por lo que declara Roberto Cárdenas, es que Camilo, a diferencia de su hermano, habría constituido un obstáculo para la sovietizacion del país. Afirma el capitán Cárdenas, que ya en 1958 algunos oficiales rebeldes habían detectados las «tendencias comunistoídes» de Fidel Castro. Una noche del mes de septiembre de 1958 se celebró una reunión en la finca de Cárdenas con la participación de Camilo. Allí se acordó que a la primera manifestación comunista de Fidel los presentes harían todo lo posible por destituirlo [Cárdenas].

Desafortunadamente los acontecimientos se desarrollaron con tal vertiginosidad que las fuerzas antiestalinistas de la revolución no atinaron a detener la penetración, fraguada de antemano, por prosoviéticos. Los sectores políticos, económicos, ideológicos y especialmente represivos del aparato estatal fuero copados rapidamente por cuadros comunistas. Quien se tomara el trabajo de visitar el museo del Ministerio del Interior, cito en quinta avenida y catorce, Miramar, La Habana, como hizo el autor en la primavera de 1993, detectaría, por las biografías inscritas en los pies de los retratos de los primeros «mártires» del G-2, la mayoritaria pertenencia a la «Seguridad» de los miembros del Partido Socialista Popular. Comparado con otras organizaciones, el PSP apenas se destacó en la lucha clandestina contra Batista. Así resulta algo desproporcionado la confianza que se depositó en sus cuadros a la hora de reprimir los grupos de todo tipo (muchos de origen revolucionario) que se opusieron al gobierno de Castro.

España; aparta de mí ese cáliz

No estaba ocurriendo «nuevo bajo el sol»; los anarquistas cubanos, que participaron como combatientes en la guerra civil española, descubrieron que se estaba repitiendo en Cuba, pero a mayor escala que en España, el modus operandi de los comunistas. Durante la guerra civil, los estalinistas, amparándose en la lucha antifascista, así como el apoyo económico, y de inteligencia les ofreció la URSS consiguieron cuotas de poder suficiente para aniquilar arteramente a muchos antifranquistas. La decisión de prestar ayuda a la República Española fue tomada por Stalin el 31 de agosto de 1936, en el curso de una reunión del Politburó celebrada en Moscú. Desde entonces, el Komintern y sus diversos agentes, organizaciones secretas y de espionaje se prepararon para para un mayor compromiso militar. El 14 de septiembre tuvo lugar una reunion determinante, nada más y nada menos que en los cuarteles de la tristemente célebre Lubianka, al parecer en presencia de Yagoda, jefe de la policía secreta NKDV. En ella se determinó organizar la ayuda militar directa de Rusia a España -algun día sabremos donde se efectuó la que hizo lo mismo con Cuba- En la reunion de marras se le atribuyó al NKDV la tarea de supervisar los envíos de armas y personal con destino a España y se nombró a «Alexander Orlov» (seudónimo) como oficial superintendente [Johansson…]. Este individuo sería la eminencia gris encargada de prácticar en España muchas de las medidas represivas que poco más de 20 años despues aplicarían sus discípulos contra los anarquistas en Cuba.

Vale recordar aquí, a modo de ejemplo, uno de los casos represivos estalinistas más escandalosos en España, el de la aniquilación del Partido Obrero de Unificación Marxista (POUM). Éste era una organización conformada por unos 60000 miembros, que lideraba Andrés Nin, antiguo secretario de Trotsky en Moscú, que mantenía una posición totalmente crítica hacia el estalinismo. Por cierto, fue gracias a la influencia de Nin sobre el comunista cubano Sandalio Junco que nacería el trotskismo en Cuba. No es mera casualidad que Junco cayera una década después que su mentor, también a manos del estalinismo, bajo los disparos de una pandilla en la que participó Armando Acosta, entre otros. Acosta se convertiría en asistente del Che durante su incursión guerrillera en las Villas, y posteriormente presidente de los llamados Comité de Defensa de la Revolución.

Volviendo a España. El prestigio de Nin le permitió ocupar la cartera de ministro de Justicia en el gobierno catalán, lo que le valió al POUM la critica de Trotsky. A pesar de ello el POUM no se pasó al estalinismo, siguió siendo uno de los pocos grupos dentro de la República, que, junto a algunas publicaciones anarquistas, se atreviera a denunciar los procesos de Moscú.

Los comunistas españoles y sus aliados internacionales, comenzaron una fuerte campaña contra el POUM. El primer eslabón fue expulsar a Nin del Gobierno catalán en diciembre del 36. El punto culminante fue su arresto y desaparición. Los dirigentes del POUM fueron acusados de fascistas. Las persecuciones y torturas las llevaban a cabo los comunistas extranjeros siguiendo instrucciones de Orlov, quien insistía en que le gobierno español no debía tener información sobre el asunto. Mientras los socialistas y republicanos, ensimismados en su lucha contra Franco apenas se dieron por enterados. Asesinado Nin, los hombres de Orlov continuaron en activo, mientras se formaba un servicio de contraespionaje llamado SIM (Servicio de Investigación Militar), con el fin de limitar la actividad entre otros, de los anarquistas. Aunque al principio el SIM sirvió con lealtad al gobiemo republicano, incluso denunció casos de los funcionarios rusos que pretendían actuar sin consultar con éste, terminó por transformarse en una policía política de los comunistas. Hugh Thomas, historiador de la guerra civil española, nos refiere:

«En todo caso el SIM pronto empezó a emplear los viles métodos de tortura de la NKVD: se construyeron celdas de unas dimensiones tan pequeñas que apenas cabía en ella un prisionero y el suelo era de ladrillos colocados de canto. Se instalaron fuertes luces eléctricas que producían deslumbramiento, o se utilizaban ruidos ensordecedores, o baños helados, hierros candentes o porras. EL SIM fue responsable del asesinato de varios reclutas del ejército republicano, y no sólo de los cobardes e ineficaces, sino también de aquellos que no estaban dispuestos a seguir las órdenes de los jefes comunistas» [Andrew].

Del mismo modo que el estalinismo de España quiso hacer pasar a los militantes del POUM por agente de los «Nacionales» se ha querido hacer pasar a los opositores de Castro, entre ellos a los anarquistas y trotskistas, como aliados de la reacción o agentes del imperialismo. El recurso de identificar al antiestalinista con las fuerzas de la «contrarrevolución» sería aplicado en Cuba, gracias a las «asesorías» de numerosos cuadros formados durante la guerra civil española, o de hijos de los comunistas educados en «La patria de Lenin». No debe extrañarnos semejanzas entre los medios de presión utilizados en las cárceles de Cuba, según los testimonios del nuevo presidio político cubano, y los que describe Hugh, como propios de las cárceles del SIM en España. Podemos arribar, pues a la conclusión de que la Guerra civil española sirvió a los estrategas soviéticos como campo de experimentación, cuyos resultados serían aplicados indefectiblemente en la transformación en saéelite de los países de Europa Oriental, y especialmente de Cuba (cuyo contexto sociocultural emparentaba con el español).

Veamos cómo se inicia el expediente cubano de la KGB -descartando la versión de Salvador Díaz Verson de que Castro fué reclutado en 1948-: a mediados de los años 50 los servicios de inteligencia soviéticos tenían grandes dudas sobre la posibilidad de un poder comunista en América Latina, dada la enorme influencia de los Estados Unidos en el continente y pese a contar con la magnífica cantera de espías que significaban los partidos comunistas, verdaderos brazos políticos de la URSS en el continente el partido comunista era capaz de desencadenar una revolución o detenerla según ella favoreciera o perjudicara los intereses de la Unión Soviética en la región-.

E1 primero en descubrir dentro de la KGB las potencialidades de Castro para los intereses regionales de la URSS fue el joven oficial hispanohablante de la KGB Nikolay Sergeievich Leonov, estacionado en la ciudad de México. Leonov había «conocido» previamente a Raúl Castro en 1951. Fue a raíz de su participación en el Festival Internacional de la Juventud en Viena. Este primer contacto tuvo lugar en el barco en que regresaba de Europa el hermano de Fidel. Se iniciaría así una historia que empequeñecería a la más fantástica de las aventuras de «James Bond» pero ahora con un final de signo contrario, el de victoria rotunda de la KGB sobre los servicios de inteligencia occidental.

Leonov frecuentará la casa de la famosa «María Antoni» -de la que habla Ernesto Guevara en su carta de despedida a Fidel Castro ante la aventura de Bolivia-. En ese lugar, Leonov también hará buenas migas con Emesto Guevara, un «rebelde sin causa» argentino de vaga ideología marxista, admirador de Mao, captado por Ñico López y Raúl Castro (en aquel entonces estalinistas convictos y confesos) para el movimiento armado. Guevara se encontrará posteriormente con Leonov en la Embajada y en las instituciones «culturales» soviéticas en México allí sera proveído de lo mejor de la literatura soviética. (Y por supuesto de su propaganda).

Cuenta Carlos Franqui que cuando conoció a Guevara éste leía las tesis de Lenin explicadas por Stalin, Franqui le preguntó que si había leído el informe de Nikita Kruschev al XX Congreso del PCUS. Guevara respondió que eso era «propaganda imperialista». Del mismo modo, Guevara manifestó ante otro testigo que la revolución antiestalinista húngara no había sido otra cosa que un motín fascista. Sin que pueda afirmarse que el Che fue un agente profesional de la KGB, no cabe dudas de que se convirtió, junto a Raúl Cartro, en un verdadero Caballo de Troya de la penetración de los prosoviéticos en las guerrillas y el posterior copamiento de la Revolución Cubana por los comunistas. Siendo uno más durante la preparación del Granma, Guevara recibirá la máxima calificación y será el alumno predilecto del maestro durante los entrenamientos militares que ofreció Alberto Bayo, prestigioso oficial del ejercito republicano español, a los expedicionarios del Granma.

Ya comandante guerrillero, Guevara favoreció en la guerrilla a los cuadros del PSP, entre ellos figuras de destacada trayectoria estalinista como Carlos Rafael Rodríguez y el ya mencionado Armando Acosta, su asistente guerrillero. Pero no sólo Guevara y Raúl tenían contactos directos con el representante de la KGB. También Fidel Castro se había dirigido a la embajada soviética en busca de ayuda militar para sus campañas guerrilleras contra Batista. Leonov comenzó a encontrarse regularmente con él ofreciéndole todo su apoyo moral. Leonov tuvo en cuenta el total control de Castro sobre le 26 de julio y el hecho de que su hermano Raúl, y un hombre de confianza, el Che ya se consideraran fueran para entonces verdaderos marxistas-leninistas.

El segundo momento crucial de esta historia lo tiene, a principios del 59 cuando viaja a Cuba el agente de la KGB Alexander Alexeiev (con la covertura de periodista de TASS) para entrevistarse, primero con Guevara y luego con el propio Castro a quienes promete todo el apoyo necesario por parte de la URSS. En julio de 1959 Ramiro Valdés, jefe de inteligencia de Castro, sostuvo un encuentro clandestino en México con el embajador soviético y el representante de la KGB. De este encuentro quedó el acuerdo de enviar a más de 100 consejeros de la KGB para los servicios de inteligencia y la seguridad de Castro. Estos consejeros fueron seleccionados entre «los niños» como se denominaban a los hijos exiliados en Rusia de los comunistas españoles. También fue enviado el veterano español Enrique Líster Farjan, uno de los jefes de propaganda del Partido Comunista español y uno de los más acérrimos críticos de las experiencias libertarias durante la guerra civil española.

En su memorias, Líster definió la revolución anarquista de Aragón como una «tiranía inhumana, que había establecido el terror como instrumento de autoridad y crimen organizado». Sin embargo, ello no fue óbice para que le tocara a Líster, en Cuba, la dudosa gloria de haber sido en creador de uno de los aparatos de represión y vigilancia colectiva más efectivos de cuantos haya conocido sociedad totalitaria alguna, los Comités de defensa de la Revolución, colocados, como dijimos, bajo la presidencia de Armando Acosta un hombre de probada fidelidad a la causa de la Madresita Rusia.

Así, los que ya se habían enfrentado dentro del campo republicano durante la guerra civil española: estalinistas y antiestalinisntas, volverían a encontrarse en Cuba. Un paradigma de este destino lo tenemos en la historia del gran intelectual republicano Antonio Ortega. Fué un hombre que supo conjugar la formación científica y cultural con la de consejero de propaganda del Consejo de Asturias como representante del partido de Izquierda republicana. Ortega se traslada a Cuba bajo la condición de exiliado a mediados de 1939. En octubre fue designado jefe de información de la prestigiosa revista Bohemia, que bajo la dirección de Miguel Ángel Quevedo comenzaba a tener una proyección continental. Antonio Ortega puede ser considerado como uno de los mejores cuentistas de cuantos produjeran en Cuba por aquellos años, por ello en 1945 fue invitado a formar parte de la fundación del Pen Club de Cuba. En 1954 Bohemia, donde continuaba ejerciendo el cargo de jefe de Información, se había convertido en la revista de idioma español de mayor tirada en el mundo y la de mayor circulación en Hispanoamérica. Ese año la triunfante empresa editora adquiere la revista que le seguía en importancia, Carteles y Antonio Ortega es designado su director. Como demostración de repudio a la dictadura de Batista, Ortega se abstuvo de participar en las actividades culturales organizadas por instituciones oficiales.

El derrumbe del régimen batisitano fue celebrado por carteles. Pronto vendría la decepción por el criterio de que en Cuba se establecería un régimen comunista. En esta situación el director de Bohemia (la revista que tan buena publicidad había hecho a la guerrilla de Castro), le propuso a Ortega marcharse del país para fundar en Venezuela «Bohemia Libre», y otra vez debió correr el camino del exilio ahora escapando del estalinismo cubano. Murió pobre pero libre en Caracas en 1970.

Otro caso similar es el de Salvador García, quien debió exiliarse despues de la revolución en México, precisamente la tierra donde su compatriota Alberto Bayo había entrenado a Fidel Castro y sus hombres. Salvador García ingresó en las juventudes libertarias siendo casi niño. Durante la guerra civil luchó hasta la caída de Cataluña. El grueso de su división fue a parar a un campo de concentración en Francia donde se incorporó a los maquis contra el ejército de ocupación alemán. Emigrado más tarde a Cuba, de donde era originaria su esposa, fue secretario de la CNT de España durante muchos años. Los acontecimientos cubanos le obligaron a exiliarse en la embajada mexicana en 1963. Su testimonio al salir de Cuba constituye una de las críticas más contundentes de cuantas haya hecho un anarquista español contra el régimen de Castro. La revista «Reconstruir» publicó una entrevista a Salvador García donde éste detalladamente relató cómo una nueva clase administraba la producción, cómo se teje la tela de araña del estado totalitario, donde toda queja o reclamo era tachado de contrarevolución, los lujos de los técnicos soviéticos, la merma de la capacidad adquisitiva del cubano, otrora uno de los países de mejor nivel de vida, perdía los derechos ciudadanos y sindicales, el fracaso del azúcar y del mal llamado trabajo voluntario. Aunque no perdía las esperanzas de una pronta liberación; declaraba sus temores pues «no es fácil que un pueblo se libere por sí solo», y ponía el caso de la España de Franco a pesar de que el fascismo internacional ya había sido vencido en los campos de batalla.

Desgraciadamente el régimen de Fidel Castro superaría al de Franco por su duración y falta de libertades. En una mesa servida por la KGB, el anarquismo estaba de más. Con el establecimiento del poder absoluto de Fidel Castro los anarquistas en Cuba solo podían tener una garantía: la de que sus días en la isla estaban contados.
Fuentes

– Abelardo Iglesias, «Revolución y dictadura en Cuba», Reconstruir 20/10/62, Buenos Aires, Argentina, y Reconstruir, compilación de artículos, 1963 / Apostillas al articulo deAlfiedo Gómez. En Guangara Libertaria, Otoño 1991.

– Agrupación Sindicalista Libertaria, «Declaración de Principios», La Habana, Junio 1960. En Guángara libertaria, Verano 1990- Alfredo Gómez, Los anarquistas cubanos o la Mala conciencia del Anarquismo. En Guangara Libertaria, Verano 1981

– Anna Johansson, Annika Hjelm, Rebecka Bohlin, «Kuba urettfühetligt perspektiv» (Cuba desde una perspectiva libertaria) En Syndikalisten, april 1998, Stockholm.

– August Souchy, «Testimonios sobre la Revolución Cubana», Reconstruir, Buenos Aires, Argentina, dic. 1960

– Christofepher Andrew, La KGB desde adentro, Nonnierr Fakta Bokförlag CAAB, Uddevallá 1991.- Frank Fernández: The Anarchist & Liberty, Monty Miller Press, 1987 / Lucha Justa y necesaria, Oct. 1996, pp. 88-90 / «Homenaje a Santiago Cobo» en Guángara Libertaria, Inviemo 1992, Vo1.13-No 49 / Carta personal al autor, 5 de dicíembre de 1997.

– Gastón Leval, «El castro-comunismo no puede engañar a nadie», Reconstruir 21 Nov-dic. 1962.

– Hugh Thomas, La Guerra Civil Española, Tomo I, Grijalbo Mondadori, Barcelona 1995

– Jorge Domingo Antonio Ortega, «De regreso», La Gaceta de Cuba, 2. Marzo/ Abril 1998, La Habana

– Justo Muriel, «Los cubanos y la libertad», Reconstruir , 41, Marzo-Abril, 1961.

– Paco Cabello, «A cien años de la independencia cubana…el Papa en Cuba». CNT febrero-abril 1998.- Roberto Cárdenas, «La muerte de Camilo Cienfuegos», Reconstruir Nov-Dic. 1961.

– Salvador García, «En torno a la revolución cubana». Reconstruir, Jul-Agosto 1963

– Sam Dolgoff, Den Kubanska Revolutionen -ur ett Kritisk Perspektiv (La Revolución Cubana desde una perspectiva crítica) Tryckeri AB Federativ, Stockholm, 1982

Aquilino Moral -1896-1979- (Wilebaldo Solano, 1997)

El 16 de febrero de 1979 falleció en La Felguera (Asturias) nuestro compañero Aquilino Moral Menéndez, militante de la CNT y del POUM. Su entierro constituyó una impresionante manifestación de duelo, a la que se asociaron casi todas las organizaciones obreras de la región. Su féretro fue llevado a hombros por sus camaradas y amigos más íntimos desde su casa hasta el cementerio de Pando, donde Aquilino reposará para siempre.

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Un revolucionario humanista, Victor Serge (Francesc de Cabo, 1990)

De Víctor Serge, nombre de «guerra» de Víctor Luovich Kibalchich Paderevski, nacido en Bruselas, hijo de exiliados rusos, casado con Liouba Roussakova, con la que tuvo dos hijos, Vladimir, conocido por Vlady, renombrado pintor que reside en México, y Jeannine, que trabaja en el Centro de Estudios Básicos en Teoría Social de la Universidad de México, se cumple este año el centenario de su nacimiento.

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El POUM y la cuestión sindical (Francisco de Cabo)

Un partido revolucionario sin una base sindical en la cual pueda apoyarse es como un edificio sin cimientos sólidos. La base sindical de un partido obrero revolucionario es su propio reaseguro de clase. Los anarcosindicalistas, en la preguerra civil convirtieron a los sindicatos de la CNT en su “partido político”: “en sí” y “por sí” el sindicato era su espacio político. Y este espacio político lo defendieron como un coto cerrado e incluso recurrieron al lenguaje de las pistolas cuando los intrusos marxistas intentaron desviar hacia sus propios conceptos sindicales los principios en que se fundamentó la creación de la Confederación Nacional del Trabajo.

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Camillo Berneri, un revolucionario

Fuente: http://www.camiloberneri.org (2007)

“Los jóvenes se sienten molestos en la estrechez dogmática de nuestro movimiento. La Anarquía es una cosa más inteligente y más seriamente hermosa que la Arcadia a lo Jean Grave, grata a la mayoría de los compañeros…. Mi revisionismo es una pequeña reforma de método, el cual, en sus líneas fundamentales me parece que debe ser confirmado por los hechos… Yo  soy un estudioso y un curioso del pensamiento de los otros, consciente de la complejidad de los problemas e insatisfecho de las soluciones simplistas….”

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La crisis del movimiento comunista, de Fernando Claudín (Juan Andrade,1970)

Cuadernos de Ruedo ibérico nº 25, junio-julio 1970

Confieso que siento siempre una gran aprensión, en principio, cuando voy a abordar la lectura de un libro escrito por un antiguo dirigente comunista que ha roto las amarras con el partido, y que trata de justificar o explicar sus posiciones políticas presentes. Generalmente se descubre un renegado, en el peor sentido del término, que ha vendido su alma al diablo, y que trata de hacer méritos de arrepentido ejercitándose en un anticomunismo frenético, en el que no se ataca ya sólo a la burocracia estalinista sino también todo lo que sea anticapitalismo, es decir las ideas socialistas en general. Es la manera de intentar justificar el poder servir a otros. Son los que terminan como apóstatas integrales, y desgraciadamente he conocido algunos ejemplos.

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El problema de la educación socialista de la nueva generación (Juan Andrade,1937)

La Historia nos ha reservado la suerte de vivir en una época en que la tensión de la angustia económica, el mismo desarrollo de la técnica, la miseria originada como consecuencia de la incompetencia capitalista para resolver sus propias contradicciones, acercan a las clases productoras, como intérpretes del progreso social, a la conquista del Poder político y al establecimiento de normas nuevas para el gobierno de los hombres y de las cosas. Precisamente esta perspectiva obliga más a delimitar el alcance de nuestros deseos, a seleccionar la nueva moral, a adquirir consciencia de la herencia que dejamos a las generaciones venideras.

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