Un mondo senza evasione possibile…Giorgo Amico

“Sin dall’infanzia, mi sembra d’aver sempre avuto, molto netto, il doppio sentimento che doveva dominarmi durante tutta la prima parte della mia vita: quello cioè di vivere in un mondo senza evasione possibile dove non restava che battersi per una evasione impossibile”(1). Inizia così Memorie di un rivoluzionario di Victor Serge, uno dei capolavori della memorialistica politica di questo secolo. Al pari di molti altri protagonisti di primo piano del movimento rivoluzionario dei paesi latini come Nin, Monatte, Rosmer, Victor Serge, che in realtà si chiamava Viktor L’vovic Kibal’cic, si  forma in quella vera e propria fucina del socialismo critico rappresentato dal movimento libertario e dal sindacalismo rivoluzionario di inizio secolo, quando gli scambi e i confini fra socialismo, anarchismo e sindacalismo non erano ancora rigidamente definiti come oggi (2). Un anarchismo “sentimentale nutrito di ansia di totale rinnovamento etico e sociale, che avversava insieme la ‘pochezza’ del socialismo riformista e le storture dell’ordine costituito borghese”(3).

Victor  Serge nasce a Bruxelles il 30 dicembre 1890 da genitori russi emigrati. L’infanzia trascorsa in un ambiente poverissimo  segna indelebilmente  la sua vita. Ricordando nelle sue memorie il fratello, Raoul-Albert, morto a nove anni di tubercolosi e di fame, Victor rende espliciti i motivi ispiratori e le caratteristiche stesse della sua lunga e travagliata militanza politica: l’avversione profonda verso ogni tipo di ingiustizia e di oppressione, il disprezzo per l’ipocrisia mascherata dei benpensanti, la profonda umana attrazione verso chi soffre.

“Detestavo – scrive – la fame lenta dei bambini poveri; negli occhi di quelli che incontravo, credevo riconoscere le espressioni di Raoul. Mi erano così più vicini di chiunque altro, fratelli, e li sentivo condannati. Sono questi sentimenti profondi che mi sono rimasti”(4).

Privo di studi regolari, istruito dal padre che, “universitario povero”, disprezzava  l’insegnamento borghese impartito alle classi popolari,(5) il giovane Victor a quindici anni si allontana da casa impiegandosi prima come apprendista fotografo, poi come fattorino d’ufficio, disegnatore tecnico, operaio. Membro della Jeune Garde Socialiste, ne scopre presto il carattere opportunista e nel 1906 in occasione del congresso straordinario del Parti Ouvrier Belge rompe con la socialdemocrazia per formare il Groupe Révolutionnaire di Bruxelles di ispirazione libertaria.

“L’anarchismo – ricorda nella sua autobiografia – ci prendeva per intiero perché ci chiedeva tutto, ci offriva tutto: non c’era un solo angolo della vita che non rischiarasse…l’anarchismo esigeva anzitutto l’accordo tra gli atti e le parole: per questa ragione andammo alla tendenza estrema, quella che mediante una dialettica rigorosa arrivava, a forza di rivoluzionarismo, a non avere più bisogno di rivoluzione”(6).

Trasferitosi in Francia, prima a Lille e poi a Parigi, con lo pseudonimo di Rétif collabora alla stampa anarchica ed entra in contatto con i teorici dell’azione diretta e illegale. Nel 1912, coinvolto marginalmente nel caso Bonnot, per il suo rifiuto di collaborare con la polizia viene condannato a cinque anni di prigione. Scarcerato, nel gennaio 1917 si rifugia in Spagna, dove con il nuovo nome di Victor Serge partecipa alla preparazione dell’insurrezione di Barcellona del 19 luglio per iniziare, poi, nell’estate un lungo e drammativo viaggio verso la terra dei suoi genitori, quella Russia dove la rivoluzione proletaria è all’ordine del giorno.  Rientrato clandestinamente in Francia, arrestato e internato nel campo di Précigné, nuovamente espulso agli inizi del 1919, Serge riesce finalmente dopo una lunga peregrinazione attraverso  l’Europa a raggiungere Pietrogrado nell’aprile 1919. Dall’esperienza del carcere e dal fallimento dell’insurrezione barcellonese egli ha maturato la consapevolezza che la possibilità di raccogliere vittoriosamente la sfida della borghesia, di trasformare la guerra imperialista in rivoluzione proletaria richiede ben altri stumenti di quelli offerti dall’anarchismo. Proprio per questo, nonostante l’iniziale sconcerto provocato dal contrasto tra gli ideali libertari e la realtà di una crescente limitazione degli spazi della democrazia operaia che egli nota fin dal suo arrivo in Russia, decide di aderire al Partito comunista e di militare da bolscevico pur preservando intatto il proprio spirito critico:

“La mia decisione era presa; non sarei stato né contro i bolscevichi né neutrale, sarei stato con loro, ma liberamente, senza abdicare al pensiero né al senso critico…Sarei stato con i bolscevichi perché davano compimento con tenacia, senza scoraggiamenti, con ardore magnifico, con passione riflessa, alla necessità stessa; perché erano soli a darvi compimento, prendendo su di sé tutte le responsabilità e tutte le iniziative e dando prova di una stupefacente forza d’animo. Essi erravano certo su parecchi punti essenziali: con la loro intolleranza, con la loro fede nella statizzazione, con la loro tendenza alla centralizzazione e alle misure amministrative. Ma, se bisognava combatterli con libertà di spirito e in spirito di libertà, era con loro, tra loro” (7).

La rivoluzione in un vicolo cieco

Collaboratore dell’organo del Soviet di Pietrogrado, Severnaja Kommuna, Serge lavora alle dirette dipendenze di Zinoviev, presidente del CE del Comintern, sviluppando un’enorme mole di lavoro e impegnandosi a fondo nei dibattiti in corso nel partito e nell’internazionale in una Pietrogrado affamata e misera ma percorsa da una tensione febbricitante, quella “città conquistata”, protagonista del suo grande romanzo del 1931. La costituzione della Ceka e lo scatenamento del terrore non lo convincono, così come non nasconde di provare un’intima pietà per le vittime della repressione qualunque fosse la loro origine sociale, ma è altrettanto consapevole della tragicità dell’ora e che “non c’è mai stata rivoluzione senza terrore”(8). Il X Congresso del partito con il divieto delle frazioni e la tragedia di Kronstadt lo colpiscono profondamente, così come la definitiva liquidazione di ciò che resta del movimento anarchico e dei  partiti sovietici. Grazie alle sue radici libertarie egli è lucidamente consapevole dei pericoli che il potere sovietico sta correndo, ma anche della necessità di scelte che apertamente confliggono con il “sogno”, così lo chiama, di quello Stato-Comune descritto da Lenin nelle pagine di Stato e rivoluzione:

“La guerra, la difesa interna contro la controrivoluzione, la carestia creatrice di un apparato burocratico di razionamento avevano ucciso la democrazia sovietica. Come sarebbe rinata? Quando? Il partito viveva del giusto sentimento che il minimo abbandono di potere avrebbe dato la meglio alla reazione”(9).

La speranza è nella rivoluzione mondiale, nel proletariato di quell’Occidente che stenta a ritrovare una normalità borghese dopo la sanguinosa esperienza della guerra imperialistica. Nel 1921 il Comintern lo invia prima a Berlino a lavorare nella redazione di Inprekorr  e poi a Vienna dove soggiornerà fino al 1923, redattore insieme a Gramsci e a Lukacs de La Correspondance Internationale, ormai a pieno titolo rivoluzionario professionale, membro del partito mondiale della rivoluzione proletaria:

“Gli eventi continuavano a schiacciarci…Vivevamo soltanto per un’azione integrata alla storia, saremmo stati intercambiabili… ci sentivamo legati ai compagni che, adempiendo agli stessi compiti, soccombevano o ottenevano successi al capo opposto d’Europa. Nessuno di noi aveva nel senso borghese della parola un’esistenza personale; cambiavamo di nome, di luogo, di lavoro secondo i bisogni del partito, avevamo appena di che vivere… e non ci interessavamo né a far denaro, né a far carriera, né a produrre un’opera né a lasciare un nome: ci interessavamo soltanto ai difficili progressi del socialismo”(10).

Da Vienna Serge assiste annichilito dopo la morte di Lenin allo scatenamento della campagna contro Trotsky, al diffondersi del cancro burocratico, all’estendersi della “soffocante dittatura degli uffici”, alla emarginazione di ogni voce anche minimamente fuori del coro, dai francesi Rosmer, Monatte, Souvarine, all’italiano Bordiga, all’ungherese Lukacs che una notte lo invita alla capitolazione in attesa di tempi migliori:

“Soprattutto non fatevi stupidamente deportare per nulla, per il rifiuto di una piccola umiliazione, per il piacere di votare a sfida… credetemi, le vessazioni non hanno grande importanza per noi. I rivoluzionari marxisti hanno bisogno di pazienza e di coraggio; non hanno affatto bisogno di amor proprio. L’ora è cattiva, siamo a una svolta oscura. Risparmiamo le nostre forze: la storia farà ancora appello a noi”(11).

Dall’osservatorio privilegiato di Berlino e Vienna osserva con l’attenzione minuziosa del cronista il fallimento di un moto insurrezionale male organizzato e peggio diretto dagli emissari di un’Internazionale comunista sempre più burocratizzata e ne stigmatizza, in quel piccolo capolavoro di giornalismo militante che sono le Notes d’Allemagne, gli esiti infausti per la ripresa della rivoluzione in Occidente. Non sorprende, dunque, la sua adesione all’Opposizione di sinistra di cui, una volta tornato in Russia, viene chiamato a far parte prima del comitato direttivo di Leningrado e poi della commissione internazionale del Centro Nazionale di Mosca. In questa veste egli si occupa di far conoscere all’estero i termini politici reali dello scontro in atto nel partito, scrivendo dal febbraio all’agosto del 1926 una serie di articoli sui problemi economici e politici dello Stato sovietico, che appariranno sulla rivista francese La Vie ouvrière (12).

Nel 1927 la situazione precipita. Il fallimento della rivoluzione cinese a causa della politica opportunista di Stalin e l’acutizzarsi della crisi della NEP determinano un brusco acutizzarsi dello scontro nel partito. A dicembre il XV Congresso delibera l’espulsione degli oppositori, all’inizio del 1928 iniziano gli arresti di massa dei trotskisti che vengono deportati in appositi campi di concentramento, i cosiddetti “isolatori”. Lo stesso Trotsky è espulso dal partito e deportato a Alma Ata nel cuore dell’Asia Centrale. Victor Serge, che non ha mai cessato di battersi scrivendo tra l’altro un acutissimo pamphlet su Le lotte di classe nella rivoluzione cinese in cui denuncia le gravissime responsabilità della direzione staliniana nel soffocamento dei moti operai di Canton e Shanghai, è arrestato in marzo. L’arresto fa scalpore, il suo è un nome troppo conosciuto.A Parigi molti intellettuali protestano e la cosa finisce sui giornali. Allarmato, il regime è costretto a liberarlo dopo un paio di mesi, accontentandosi di un suo impegno a non svolgere per il futuro “attività antisovietica”.

Isolato, circondato da spie e provocatori, totalmente disilluso sulle possibilità reali dell’Opposizione di sinistra di svolgere un’efficace azione politica dalla clandestinità, Serge si impegna in una resistenza solitaria e tenace, carcando di non farsi abbattere dalle avversità, dalla miseria, dalla quotidiana lotta per la sopravvivenza sua e dei suoi familiari, essendogli come per gli altri oppositori preclusa ogni possibilità di impiego regolare. Ma più di tutto pesa l’incapacità di fare i conti con la realtà, di tirare un bilancio definitivo della tragica parabola della rivoluzione e del partito, un coraggio che farà difetto anche a un combattente come Trotsky che dall’isolamento di Alma Ata continua a mostrarsi fiducioso nelle possibilità di un recupero del partito e dell’internazionale:

“Nessuno consentiva a vedere il male così grande come era. Che la controrivoluzione burocratica fosse giunta al potere e che un nuovo Stato dispotico stesse uscendo dalle nostre mani per schiacciarci, riducendo il paese al silenzio assoluto, nessuno, nessuno tra noi voleva ammetterlo. Dal fondo del suo esilio di Alma Ata, Trotsky sosteneva che questo regime rimaneva il nostro, proletario, socialista, benchè malato; il partito che ci scomunicava, ci imprigionava, cominciava ad assassinarci, restava il nostro e continuavamo a dovergli tutto; non bisognava vivere che per lui, non potendosi servire la rivoluzione che per mezzo suo. Eravamo vinti dal patriottismo di partito; questo suscitava la nostra ribellione e ci schierava contro noi stessi”(13).

Escluso dal partito, impedito nel suo lavoro di giornalista militante, strettamente sorvegliato dalla polizia politica, a partire dal 1928 Serge si dedica assiduamente alla letteratura a cui aveva rinunciato nel 1919 in quanto “cosa ben secondaria in una simile epoca”. Ma ora le cose sono cambiate. La rivoluzione si è spenta a poco a poco, i margini di azione politica sono andati progressivamente riducendosi fino a scomparire. “Solo quando sono stato costretto a un’assoluta passività esterna”, scriverà all’amico Marcel Martinet  nel settembre del 1930, “sono tornato all’espressione letteraria, che ora comincia ad appassionarmi… Sempre di più penso che bisogna ricominciare tutto dalla base, quindi, sotto un certo profilo, dalla formazione dei caratteri. Da questo punto di vista, dei libri sinceri e veritieri possono essere utili” (14).

Serge vive dunque la creazione letteraria non come fuga da un presente ingrato, ma come diretta prosecuzione con altri mezzi e in un contesto radicalmente mutato di un impegno “improntato a rigorosi principi etici e politici, in primo luogo alla ricerca e alla difesa della verità, irriducibile a qualsivoglia ragione di Stato o di partito”(15). Vicino anche in questo campo alle posizioni di Trotsky, espresse nel 1924 in Letteratura e rivoluzione, egli impronta l’intera sua produzione al principio per cui “la letteratura, se vuole compiere nella nostra epoca tutta la sua missione, non può chiudere gli occhi sui problemi interni della rivoluzione”(16). Il romanzo, dunque, come strumento pedagogico, come forma privilegiata di conservazione di una memoria storica al di fuori della quale non esiste possibilità di riscatto. E’ in quest’ottica che Serge, che pure proprio in questo periodo sta portando a termine una delle sue opere più significative, quel L’anno I della Rivoluzione russa destinato a diventare con I dieci giorni… di John Reed e La storia della rivoluzione di Trotsky un classico della storiografia militante, abbandona di fatto la ricerca storica per la narrativa:

“Il lavoro storico non mi soddisfaceva interamente…. non permette di mostrare sufficientemente gli uomini vivi, di smontare il loro meccanismo interno, di penetrare nella loro anima. Una certa luce sulla storia non può essere gettata, ne sono persuaso, altro che dalla creazione letteraria libera e disinteressata… Io concepivo…lo scritto… come un mezzo di esprimere per gli uomini ciò che i più vivono senza sapere esprimere, come un mezzo di comunione, come una testimonianza sulla vasta vita che fugge attraverso di noi e di cui dobbiamo tentare di fissar gli aspetti essenziali per coloro che verranno dopo di noi”(17).

Vedono così la luce uno dopo l’altro i romanzi del cosiddetto “ciclo della rivoluzione”, tentativo di narrare attraverso le vicende di uomini e luoghi l’intero ciclo di lotte di classe che va dall’Affare Bonnot all’Ottobre, dalla dolente descrizione del mondo carcerario e delle relazioni fra gli uomini che lo abitano de Gli uomini nella prigione, all’affresco corale di Nascita della nostra forza,  rievocazione dell’ascesa “dell’idealismo rivoluzionario attraverso l’Europa devastata del 1917-1918”,(18) per concludere con il disincantato e splendido La città conquistata dove egli tira un amaro bilancio della rivoluzione come necessità che sovrasta l’individuo e che in qualche modo si nutre dei suoi sogni e delle sue speranze privandolo dell’innocenza:

“Il mondo è da rifare. Per questo bisogna vincere, resistere, sopravvivere ad ogni costo. Più saremo duri e forti, meno verrà a costare. Duri e forti anzitutto verso noi stessi. La rivoluzione è un’impresa che va realizzata sino in fondo senza debolezze. Noi siamo soltanto gli stumenti di una necessità che ci trascina, ci travolge, ci esalta e sicuramente passserà sui nostri corpi. Noi non inseguiamo nessun sogno di giustizia, noi facciamo ciò che deve essere fatto, ciò che non può non essere fatto” (19).

Nella mezzanotte del secolo

Nuovamente arrestato, Serge viene trasferito a Mosca e poi condannato a tre anni di deportazione in  “quel modesto succedaneo dell’inferno”(20) che è tornata ad essere la Siberia sotto Stalin. Ridotto in estrema miseria, Serge resiste alla disperazione scrivendo due nuovi romanzi, Gli uomini perduti e La tormenta, e preparando la prima stesura de L’anno II della rivoluzione russa. Tutti materiali destinati ad andare persi al momento della sua liberazione. L’arresto e la deportazione dello scrittore non passano sotto silenzio. In Francia si sviluppa una forte campagna in suo favore, persino intellettuali vicini allo stalinismo come Romain Rolland o  considerati “amici dell’URSS” come André Gide si mobilitano premendo sulle autorità sovietiche perché lo scrittore venga liberato. Ma è solo nel 1936, alla scadenza della pena, che Serge è liberato ed espulso dall’URSS assieme alla sua famiglia.

Il 18 aprile 1936 Serge arriva a Bruxelles e si dedica subito ad un’intensa attività pubblicistica. In pochi mesi apparvero un opuscolo sui processi di Mosca,  un bilancio sulla rivoluzione russa a due decenni dall’Ottobre e numerosi articoli su pubblicazioni della sinistra rivoluzionaria e sul quotidiano socialista di Liegi, La Wallonie. Inizia anche una collaborazione con Trotsky, allora esule in Norvegia, che fin dall’inizio appare non facile. A differenza di molti sostenitori del “vecchio”, in genere giovani intellettuali giunti da poco alla politica militante, Serge non si sente schiacciato dal carisma debordante del fondatore dell’Armata Rossa e non rinuncia a rimarcare le differenze di visione sulla Spagna e sul Poum o sul Fronte popolare francese, anche se con grande onestà intellettuale saprà riconoscere, una volta verificatasi la rottura definitiva, le ragioni del suo interlocutore:

“Trotsky mi scriveva dalla Norvegia che tutto ciò avrebbe condotto a disastri e io avevo torto di dargli torto: vedeva giusto e lontano in quel momento”(21).

Nonostante queste differenze, Serge si mantiene vicino al movimento trotskista, tanto da essere invitato alla cosiddetta Conferenza di Ginevra che si tiene nel luglio 1936 in preparazione della costituzione formale della Quarta Internazionale.  Ma la sua attività non esaurisce nell’ambito del trotskismo, assieme a intellettuali critici e a vecchi militanti operai del calibro di André Breton, Marcel Martinet, Magdeleine Paz, Pierre Monatte, Alfred Rosmer, Maurice Dommanget, Daniel Guérin e altri, costituisce un Comitato per l’inchiesta sui processi di Mosca e per la difesa della libertà d’opinione nella Rivoluzione che tenta di spezzare la cortina di silenzio sui crimini dello stalinismo e di controbattere in qualche modo la martellante campagna di menzogne sull’URSS patria del socialismo e principale baluardo antifascista frutto congiunto della propaganda dei PC staliniani e di un’intellettualità “progressista” asservita alla controrivoluzione. Fin dall’inizio Serge ha ben chiaro il filo conduttore che lega la politica staliniana e unisce fenomeni per molti versi sconcertanti come le grandi purghe in URSS o la politica controrivoluzionaria in Spagna. Può così prevedere con largo anticipo, dopo il primo grande processo dell’agosto, i processi che seguiranno e indicare persino i nomi dei futuri condannati a morte:

“Comprendevo – nota nelle sue Memorie– che era il principio dello sterminio di tutta la vecchia generazione rivoluzionaria… Perché questo massacro, mi domandavo nella Révolution Prolétarienne, e non gli vedevo altra spiegazione che la volontà di sopprimere i gruppi di ricambio del potere alla vigilia di una guerra considerata imminente. Stalin, ne sono persuaso, non aveva strettamente premeditato il processo, ma egli vide nella guerra civile di Spagna il principio della guerra europea…Una orribile logica ha presieduto all’ecatombe…Assassinati i primi bolscevichi, bisognava evidentemente assassinare gli altri, diventati testimoni incapaci di perdonare. Bisognò pure, dopo i primi processi, sopprimere coloro che li avevano montati e ne conoscevano i retroscena, al fine che la leggenda creata diventasse credibile. Il meccanismo dello sterminio era così semplice che si poteva prevederne la marcia”(22).

Liquidata la vecchia guardia bolscevica, la controrivoluzione non si ferma, ma investe direttamente l’opposizione marxista rivoluzionaria ovunque questa cerchi di organizzarsi. Nella primavera del 1937, soffocata nel sangue la Comune di Barcellona, gli staliniani procedono alla liquidazione sistematica dei poumisti e degli anarchici. Nel settembre a Losanna viene assassinato da sicari al soldo di Stalin l’ex dirigente della GPU Ignat Reiss da poco passato con l’opposizione trotskista. Nel febbraio dell’anno successivo muore a Parigi in circostanze mai chiarite il figlio di Trotsky, Leva Sedov, mentre in luglio viene rapito e assassinato Rudolf Klement, segretario organizzativo della Quarta Internazionale. E’ una vera e propria guerra di sterminio che non risparmia nessuno e a cui Serge cerca  di opporsi come può, pubblicando su La Révolution prolétarienne una rubrica di denuncia dei crimini staliniani,“Cronaca del sangue versato”, e dando alle stampe due nuove opere, Da Lenin a Stalin e Destino di una rivoluzione, in cui, riprendendo sostanzialmente le tesi sviluppate da Trotsky in La rivoluzione tradita,  traccia un bilancio ancora ”ortodosso” dell’esperienza sovietica. Nonostante la violenza rivoltante del Termidoro staliniano, per Serge l’URSS resta ancora uno Stato operaio grazie alla proprietà statale dei mezzi di produzione e alla pianificazione. Proprio per questo  la controrivoluzione burocratica è spietata, come in E’ mezzanotte nel secolo, un altro grande romanzo apparso nel 1938, il deportato Ryzik chiarisce agli altri detenuti demarcando con triste orgoglio il confine fra i militanti bolscevichi perseguitati, ma non vinti e i nuovi padroni:

“Sanno quello che siamo e cosa sono essi stessi… Nessuno è più pratico, più cinico e più lesto a risolvere tutto con l’omicidio, dei plebei privilegiati che sopravvivono alle rivoluzioni… Nasce una nuova piccola borghesia con i denti aguzzi, che ignora il significato della parola coscienza, si prende gioco di ciò che ignora, vive di energie e di slogan d’acciaio e sa molto bene di averci rubato le vecchie bandiere… E’ feroce e vile. Noi siamo stati implacabili per trasformare il mondo, loro lo saranno per conservare il bottino. Noi davamo tutto, anche quello che non avevamo, il sangue degli altri assieme al nostro, per un futuro sconosciuto. Loro sostengono che ogni cosa è compiuta purchè non gli si chieda niente; e per loro ogni cosa è realmente compiuta visto che hanno tutto. Saranno inumani per vigliaccheria”(23).

E’ mezzanotte nel secolo, redatto fra il 1936 e il 1938,  rappresenta la prima di una serie di opere dedicate da Serge a ricostruire gli esiti tragici di una generazione rivoluzionaria “logorata dalle lotte, spezzata dalla macchina totalitaria che –ed è una delle avventure più tragiche che la storia conosca- essa stessa, senza volerlo e senza rendersene conto, ha costruito con le proprie mani”(24). Il romanzo esce in Francia nel 1939, fra il crollo della repubblica spagnola e lo scoppio della seconda guerra mondiale e racconta la storia, trasposizione letteraria della drammatica esperienza di deportazione vissuta dall’autore, di un gruppo di trotskisti irriducibili confinati in un lager dell’estremo Nord. Il periodo che intercorre fra la stesura e la pubblicazione del romanzo segna un momento cruciale nell’evoluzione politica di Serge  che proprio in quei mesi rompe definitivamente con Trotsky e con la Quarta Internazionale in cui non aveva mai riposto alcuna speranza:

“Da quest’epoca data pure la mia rottura con Trotsky. Mi ero tenuto al di fuori del movimento trotskista, in cui non ritrovavo le aspirazioni dell’opposizione di sinistra in Russia a un rinnovamento delle idee, dei costumi e delle istituzioni del socialismo. Nei paesi che conoscevo, in Belgio, in Olanda, in Francia, in Spagna, gli infimi partiti della IV Internazionale, lacerati da frequenti scissioni e, a Parigi, da lamentevoli litigi, costituivano un movimento debole e settario, in cui, mi pareva, nessun pensiero nuovo poteva nascere… L’idea stessa di fondare un’Internazionale nel momento in cui tutte le organizzazioni internazionali socialiste soccombevano, in piena ondata di reazione e senza appoggi da nessuna parte, mi pareva insensata”(25).

Partito da una critica contingente ai limiti dell’Opposizione di sinistra, Serge progressivamente allarga il suo campo di indagine all’intero percorso politico del  bolscevismo a partire dalla rivoluzione d’Ottobre con l’intento di individuare quei fattori che hanno in qualche modo favorito lo sviluppo del totalitarismo staliniano. Il punto di rottura viene concretamente individuato nel “terribile episodio” di Kronstadt e nella creazione della Ceka, per Serge gravissimi errori  in quanto “incompatibili” con il socialismo. Fermamente convinto dell’assoluta necessità etica e politica di superare la discrasia fra fini e mezzi che gli pare sostanziare l’intera esperienza bolscevica, Serge  chiede al movimento trotskista un pronunciamento aperto sul tema della democrazia. La risposta è raggelante. Trotsky rifiuta sprezzantemente di confrontarsi con posizioni che ritiene nulla più di una “manifestazione di demoralizzazione piccoloborghese”. Per lui Serge, scambiando la sua crisi personale per quella del marxismo,  cerca di unire marxismo anarchismo e poumismo in una sintesi priva di qualsiasi valenza politica. E’ una critica che non lascia spazio a mediazioni di sorta. La frattura non verrà ricomposta e un anno più tardi l’assassinio del “vecchio” chiuderà definitivamente la questione. Nelle sue Memorie, rievocando questo episodio, Serge si esprimerà nei riguardi di Trotsky con enorme rispetto e con un affetto quasi filiale che non nasconde, tuttavia, una radicale critica politica:

“Sui problemi dell’attualità russa riconoscevo a Trotsky chiaroveggenza e intuizioni stupefacenti… Lo vedevo mescolare con i lampi di un’alta intelligenza, gli schematismi sistematici del bolscevismo d’altri tempi, di cui credeva la risurrezione inevitabile in ogni paese. Comprendevo quel suo irrigidirsi di ultimo superstite di una generazione di giganti, ma, convinto che le grandi tradizioni storiche non si continuano altrimenti che attraverso i rinnovamenti, pensavo che il socialismo debba pure rinnovarsi nel mondo moderno; e che ciò debba accadere mediante l’abbandono della tradizione autoritaria e intollerante del marxismo russo dell’inizio di questo secolo”(26).

In un mondo senza perdono

Lo scoppio della guerra lo coglie a Parigi. Il 10 giugno 1940, poco prima dell’entrata dei tedeschi nella capitale, egli parte con i propri familiari per Marsiglia, da lì con grande fatica dopo infinite peripezie riesce ad ottenere un visto per il Messico dove giunge nel settembre dopo un viaggio avventuroso di cinque mesi che ha toccato la Martinica, San Domingo e Cuba. L’esperienza, prima della fuga dalla Francia occupata e poi dell’esilio messicano, è terribile e segna profondamente Serge accentuandone quella vena di amarezza che già aveva manifestato nei suoi ultimi scritti. Rivoluzionario senza partito, odiato dagli stalinisti, respinto dai trotskisti, egli è costretto a bere fino in fondo l’amaro calice di un isolamento quasi totale. “Noi viviamo –scrive dal Messico all’amicoAntoine Borie- del tutto isolati… le persone vivendo per gruppi nazionali, ogni solidarietà essendosi dissolta”.27 “Ci si salva d’altronde per famiglie politiche, i gruppi non servono più ad altro che a questo. Tanto peggio per il fuori partito che si è permesso di pensare solo…” (28).

Nell’esilio messicano Serge si dedica totalmente ad una intensissima attività letteraria. Mentre redige le sue Memorie, collabora attivamente con riviste europee e nordamericane e scrive gli ultimi suoi romanzi, Il caso Tulaev, Gli ultimi tempi e Anni spietati. Dedicato al tema dei grandi processi staliniani degli anni Trenta e delle confessioni degli esponenti della vecchia guardia bolscevica che si erano autoaccusati di ogni sorta di crimine contro il potere sovietico, Il caso Tulaev ricostruisce dal di dentro con una precisione assoluta il clima di terrore e di menzogna sviluppatosi in URSS a partire  dall’assassinio di Kirov e culminato nelle gigantesche purghe che spazzano via quello che resta del vecchio partito bolscevico. Pubblicato in Francia soltanto nel 1948, un anno dopo la morte di Serge, il romanzo, che egli considerava il suo libro migliore, và a confondersi con i primi segnali della guerra fredda e della propaganda antisovietica tanto da far attribuire al suo autore l’etichetta falsa di sostenitore del “mondo libero” e di anticomunista. In realtà, pur da posizioni estremamente critiche, Victor Serge si considererà sempre un marxista, anche se il suo marxismo assume col tempo una sempre più marcata connotazione umanistica a cui non è estraneo un crescente interesse verso la psicologia considerata “la scienza rivoluzionaria dei tempi totalitari”. Seppur critico verso ogni forma di dogmatismo e assertore convinto, anche se confuso, della necessità di un radicale rinnovamento della teoria, Serge non rifluisce sulle giovanili convinzioni libertarie, né aderisce, nonostante qualche momentanea debolezza, ad un’illusoria terza via tra capitalismo e comunismo, ma fino all’ultimo  si dichiara apertamente a favore della validità del metodo marxiano:

“Il concetto di lotta di classe spiega la storia degli ultimi vent’anni con un’esattezza illuminante; ciò significa che essa è intellegibile solo alla luce del marxismo. Soltanto il marxismo ci permette di capire la sconfitta del socialismo in Europa…Le sconfitte del movimento socialista non sono necessariamente sconfitte per il marxismo…Il fatto indiscutibile che siamo sconfitti non deve scoraggiarci troppo se riusciamo a comprendere perché e come siamo stati sconfitti”(29).

Altrettanto coerente è la sua posizione verso il bolscevismo. Serge non sarà mai, nonostante le ingenerose critiche di Trotsky,  un rivoluzionario pentito. Certo, le sue posizioni cambiano, evolvendo dall’originale condivisione della tesi trotskiana dell’URSS stato operaio degenerato ad una concezione, poco definita e in gran parte giocata sul piano sovrastrutturale, dello stato sovietico come totalitarismo, per approdare infine, durante  gli anni della guerra, al tentativo di fondere, con esiti peraltro notevolmente confusi, le teorie fra loro inconciliabili del capitalismo di stato e del collettivismo burocratico. Ciononostante, a differenza di molti altri intellettuali impegnati che nel dopoguerra si schiereranno a fianco del Dipartimento di Stato nella crociata anticomunista, Serge anche quando si sposta in qualche modo verso destra mantiene un profondo legame emozionale con la rivoluzione russa e la sua esperienza di militante prima del partito di Lenin e poi dell’Opposizione di sinistra, tale da ricondurlo sempre su posizioni inconciliabili con l’ordine borghese (30). Sicchè il valore dell’intera opera di Serge non consiste solo nell’essere un documento storico-politico pressochè unico, ma nella riaffermazione della validità di un ideale rivoluzionario in cui politica e morale possano coesistere. In quest’ottica la sua critica, talvolta anche aspra, al “giacobinismo” esasperato di Lenin e Trotsky si stempera in un più meditato bilancio secondo cui “né l’intolleranza né l’autoritarismo dei bolscevichi (e della maggior parte dei loro avversari) consentono di mettere in questione la loro mentalità socialista e le acquisizioni dei primi dieci anni della rivoluzione… Resta il fatto che la resistenza della generazione rivoluzionaria, alla testa della quale si trovava la maggior parte dei vecchi socialisti bolscevichi, fu così tenace che, nel 1936-1938, all’epoca dei processi di Mosca, questa generazione dovette essere sterminata interamente perché il nuovo regime potesse stabilizzarsi. Fu il colpo di forza più sanguinoso della storia. I bolscevichi perirono a decine di migliaia… i più grandi campi di concentramento del mondo si incaricarono dell’annientamento fisico di masse di condannati”(31).

“Serge – commenta il suo maggiore studioso italiano- conosce troppo bene, per averla vissuta dall’interno, la parabola della rivoluzione per ignorare che la degenerazione burocratico-totalitaria non è il prodotto fatale di un’ideologia, bensì il risultato del progressivo isolamento della rivoluzione nei confini di un paese arretrato, e per dimenticare che l’amalgama tra la Russia di Lenin e quella di Stalin è priva di qualsiasi fondamento, giacchè lo stalinismo ha potuto affermarsi sul terreno della rivoluzione solo soffocando la rivoluzione stessa, negandone i presupposti, vanificandone i fini e massacrando un’intera generazione di rivoluzionari. In definitiva, si può affermare che tutta l’opera di Serge, proprio quando più aspra e serrata si fa la critica degli orrori dello stalinismo, testimonia a favore della rivoluzione e non contro di essa”(32).

Victor Serge muore il 17 novembre 1947, stroncato da un infarto in un taxi di Città del Messico. A lui ben si addicono, quasi a rappresentare un ideale testamento, le parole di uno dei suoi personaggi: “Scomparendo, non   stabiliamo il bilancio del disastro, ma testimoniamo la grandezza d’una vittoria che ha anticipato troppo il futuro e chiesto troppo agli uomini” (33).

Savona, dicembre 1999
Notas

1  V. Serge, Memorie di un rivoluzionario, La Nuova Italia, Firenze 1956, p.3.
2  E. Santarelli, «Nuovi studi su Victor Serge», Bandiera Rossa, n.24, aprile-maggio 1992.
3  M.L. Salvadori, «Victor, testimone della bufera», La Stampa del 21/9/1983.
4  V. Serge, Memorie…, cit., p. 9.
5  Ibidem, pp.12-13.
6  Ibidem, p.28.
7  Ibidem, pp.111-112.
8  V. Serge, Gli anarchici e l’esperienza della rivoluzione russa,  Jaca Book, Milano 1969, p.17.
9  V. Serge, Memorie…, cit., p.194.
10 Ibidem, pp.257-258.
11 Ibidem, p.282.
12 P. Casciola, Victor Serge (1890-1947), introduzione a V. Serge, Ritratto di Stalin, Erre emme, Roma 1991, p.18.
13 V. Serge, Memorie…, cit., p.356.
14 V. Serge, lettera a Marcel Martinet, 17 settembre 1930.
15 A. Chitarin, Introduzione a V. Serge, La città conquistata, Manifestolibri, Roma 1994, p. 8.
16 V. Serge, Letteratura e rivoluzione, Celuc Libri, Milano 1979, p.74.
17 V. Serge, Memorie…, cit., pp.381-382.
18 V. Serge, lettera a Marcel Martinet, 20 febbraio 1931, Rivista di storia contemporanea, n.3, ottobre 1978.
19 V. Serge, La città conquistata, Manifestolibri, Roma 1994, p.44.
20 V. Serge a H. Poulaille, lettera del 7 agosto 1934, in Rivista di storia contemporanea, cit.
21 V. Serge, Memorie…, cit., p.484.
22 Ibidem, p.486.
23 V. Serge, E’ mezzanotte nel secolo, Edizioni e/o, Roma 1980, p. 122.
24 F. Lefevre, intervista con Victor Serge, La Wallonie, 30 gennaio 1940.
25 V. Serge, Memorie…, cit., p.514.
26 Ibidem, pp.514-515.
27 V. Serge, Lettres a Antoine Borie, Témoins. Cahiers indépendants, Zurich, Février 1959, p.10.
28 V. Serge, Memorie…, cit., p.535.
29 V. Serge, Socialismo e totalitarismo, Prospettiva Edizioni, Roma 1997, pp.81-82.
30 A. Wald, «Victor Serge et la Gauche anti-stalinienne de New York 1937-47», Cahiers Léon Trotsky, n.35, septembre 1988, p.16.
31 V. Serge, La crisi del sistema sovietico, Edizioni Ottaviano, Milano 1976, pp. 210-212.
32 A. Chitarin, Introduzione a V. Serge, Il caso Tulaev, Bompiani, Milano 1980, p.XIII.
33 V. Serge, Il caso Tulaev, cit., p.429.

Aquilino Moral -1896-1979- (Wilebaldo Solano, 1997)

El 16 de febrero de 1979 falleció en La Felguera (Asturias) nuestro compañero Aquilino Moral Menéndez, militante de la CNT y del POUM. Su entierro constituyó una impresionante manifestación de duelo, a la que se asociaron casi todas las organizaciones obreras de la región. Su féretro fue llevado a hombros por sus camaradas y amigos más íntimos desde su casa hasta el cementerio de Pando, donde Aquilino reposará para siempre.

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Víctor Serge. Un humanista contra el totalitarismo (Claudio Albertani, 2010)

A. V. Gusiev (editor). Víctor Serge. Humanismo socialista contra totalitarismo, (Ludmila Biriukova/Bernardo Mayorga, editores de la versión española). Reelaboración del texto leído el 5 de marzo de 2010 en el auditorio del Instituto Ciencias Sociales y Humanidades de la Benemérita Universidad Autónoma de Puebla. Con autorización del autor.

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Esbós d’un combatiu home de poble: Ramón Fernández Jurado (Manel Alberich)

Prólogo al interesante libro autobiográfico de Ramón Fernández Jurado:  Memòries d´un militant obrer (1930-1942), publicado en 1987 por Editorial Hacer. La edición incluye dos prólogos, uno de Víctor Alba, y otro de Manel Alberich.
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In memoriam. Manel Alberich i Olivé (Pepe Gutiérrez-Álvarez)

Tuve ocasión de conocer hace muchos años a Manel Alberich allá por 1977, cuando era un militante reconocido en las filas del PSC de L´Hospitalet, y me lo presentó mi primera amistad poumista, Joan Rocabert (1916-1997) con el que había tratado en la animada casita de Francecs Pedra, y el mismo que años más tarde sería reclutado por Ken Loach como asesor militar en el frente de Aragón donde llegó a ser oficial del estado Mayor de la 29ª División.

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Manuel Alberich (1914-2006) (Pelai Pagès)

Alberich i Olivé, Manuel, tenidor de llibres i militant socialista (Barcelona, 1914). .Diccionari biographic del movement obrer al Països Catalans, Editions Universitat de Barcelona-Publicacions de l´Abadia de Montserrat, 2000. Con autorización del autor.

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Complanta en la mort de Antònia Adroher

Llegit en l’Homenatge Popular del dia 28 de setembre de 2007
Sé que aquesta complanta monòdica que estic començant no agradaria del tot als vells militants del POUM. Ells no eren amics de les floritures estilístiques, ni de la lírica aplicada a l’exercici de la memòria. Ells sabien que la política, fins i tot la més generosa, no és una qüestió de bons sentiments. 

No s’estaven de punyetes, els agradava anar al gra, perquè tenien moltes coses a fer i tot un món per començar-lo a construir de nou. El temps corria a la contra i l’enemic, un enemic potent, nombrós i temible, els encalçava sense treva.

Però a mi, Antònia, m’has de deixar anar per les branques, m’has de permetre que m’enfili a l’olivera del teu carrer, per poder contemplar els dies clars de la teva vida i l’eterna frescor del teu somriure insubornable.

Més enllà d’un passat d’imatges en blanc i negre, m’has de deixar imaginar-te en color, m’has de deixar que m’enfili per les paraules, Antònia. Què seria de nosaltres si no existissin les paraules?

Sense paraules, per no existir, no existirien les idees, i les idees, Antònia, ens sobreviuran a tots. Tots nosaltres som fills de les idees, d’un grapat d’idees, que se’ns escolarien entre els dits, com la sorra de la platja, si no fos pel poder d’atracció dels mots.

Probablement el primer concepte que vas aprendre i el primer que ens vas ensenyar a nosaltres fou el que es sintetitza i es condensa en la paraula “fraternitat”. La teva idea d’aquest concepte no era només una intuïció brodada en una bandera, un projecte imprès en una tesi o una consigna buida.

La paraula “fraternitat” la portaves penjada de les entranyes, perquè ja se sap que la gent d’esquerres, a falta d’ànima immortal, pengen d’allà on poden els seus sentiments. La paraula “fraternitat” és un sentiment genuí de la gent d’esquerres, que tu expressaves amb els ulls i amb el gest, amb les paraules i amb els silencis. La fraternitat, per tu i pels teus, no era un concepte imputable en la columna dels drets sinó en la de les obligacions morals.

Tu sabies el que ara molts ignoren: que la fraternitat és el que ens distingeix dels animals. Ells, pobrets, només coneixen fins allà on arriba l’amor. Tu sabies que calia anar molt més enllà de l’amor.

Més enllà de l’amor hi ha la fraternitat i més enllà de la fraternitat s’estén una terra anomenada “justícia”. Hi ha gent, encara ara, que no sap ben bé el que és la justícia ni com s’ha de distribuïr. Tu, Antònia, ho tenies clar, per tu la justícia era un sinònim de la paraula “igualtat” i s’impartia a l’escola. Tu tenies fe en una justícia que s’imparteix bàsicament a través de la pedagogia.

Vas fer de mestra, però a més vas crear escoles, vas enderrocar murs i vas obrir finestres. Estaves orgullosa de les teves finestres, per on s’escolava la llum imparable del coneixement.

Hi ha països generosos on es venera eternament els pares de la pàtria, nosaltres hauríem de fer el mateix amb els mestres de la República. Ells van ser els pares de la nostra pàtria, ells van acatar les lleis i van saber impartir justícia, l’única justícia que ens pot fer sentir lliures.

Sense paraules, per no existir, no existirien ni els records, però, per sort, les paraules existeixen i les paraules persisteixen, i tu, Antònia, tu i els teus, sereu sempre presents en la nostra història quotidiana, perquè el teu nom i el teu record seran sempre sinònims de la paraula “fraternitat” i de la paraula “justícia” i del mot que encara ara ens uneix a tots, perquè la llibertat és una idea i les idees no moren mai.

Deixeu-me, amigues i amics, per acabar aquesta complanta, alçar la veu avui aquí, sota la placa d’aquest carrer que porta el teu nom, Antònia, alçar la veu amb un crit que s’ha de fer sentir des de Sant Narcís fins a Vista Alegre, de Banyuls fins a París i d’Ultramort a Barcelona, un crit que resumeix la teva lluita i les nostres vides.

Amigues i amics, conciutadans i conciutadanes, companyes i companys, en nom de l’Antònia: visca la llibertat!

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José Gabriel y la revolución española. Apuntes en torno a «La vida y la muerte en Aragón» (Niall Binns)

Este texto de Niall Binns (1) forma parte del libro La vida y la muerte en Aragón, recientemente publicado por Salvador Trallero editor y El Perro Malo. El libro está disponible en el Catálogo de Publicaciones de la Fundación Andreu Nin. 

Hay dos grandes núcleos emocionales en La vida y la muerte en Aragón: el día que el corresponsal de guerra José Gabriel pasa en el frente con Buenaventura Durruti y en el que es testigo del ataque a Fuentes de Ebro, y el día en que visita Torres del Obispo, el pueblo aragonés donde nació cuarenta años antes, en 1896, y donde descubre que la sala en que está reunido con el comité del pueblo es la casa de su niñez. José Gabriel López Buisán –más tarde, como periodista y escritor, prescindiría de los apellidos de sus padres, acaso como si fuesen un lastre– pasó sus primeros nueve años de vida entre Torres del Obispo y Madrid. De sus días en el Madrid bombardeado del otoño de 1936 no hablaría en los dos libros que dedicó a la guerra de España, pero en un ensayo escrito a su regreso a Buenos Aires recordaría así la ciudad de su infancia: “Chapaleaba de pibe en el Manzanares, al pie de las Vistillas, entre la espuma de la colada que navegaba como camalote, y los hilitos tibios de nuestro pis; en el Manzanares, ‘arroyo aprendiz de río’ dijo Quevedo, y se olvidó de decir: y de héroe. Lo vi después, desde el Puente de Segovia, con hilitos de sangre, también de niños” (“Mares y ríos”, El nadador y el agua, 1938).

*

En torno a 1905, la familia de José Gabriel se estableció en Buenos Aires. El escritor adulto jamás olvidaría, y jamás dejaría de agradecer y celebrar la acogida que recibieron él y los suyos, como tantas otras familias inmigrantes, en la ciudad que llamaría siempre “mi Buenos Aires”. Lo comentó con insistencia en España en la cruz (1937), en el relato de su viaje en barco al viejo continente para asistir, como enviado especial del diario Crítica, a la guerra civil. Los niños que viajaban con él, pero en tercera clase, “en las costuras del barco”, eran todos argentinos: “unos, hijos de italianos, otros de españoles, otros, de polacos, otros, de turcos; pero todos argentinos, nacidos en Buenos Aires, en Santa Fe, en el Norte; todos argentinos; con fachitas que revelan diferentes razas; pero todos argentinos. Hablan entre ellos en criollo, naturalmente, como todos los niños de allá, como los míos”. Los veía jugar, reír y pelearse, como si estuvieran todavía en una calle o conventillo porteño, y decirse “vení, andá, che, che, vos qué te creés”; y al verlos y oírlos se entristecía. En los años treinta, la “década infame”, las tierras promisorias del Río de la Plata se habían ido haciendo cada vez más hostiles, comenzaba a legislarse en contra de la inmigración, y era en ese clima en que las familias que lo acompañaban en el barco regresaron a sus países de origen. Reflexionaba Gabriel: “Y cuando los oigo y pienso que dentro de unos años, dispersos por tierras tan distintas, ciudadanos de varias naciones, hablarán diversos idiomas, me parece pensar la pérdida de un tesoro. Estos niños de tan varias procedencias raciales eran, son aún, ciudadanos del mundo; dentro de poco serán ciudadanos limitados; la humanidad que circula por ellos habrá retrocedido”.
Orgulloso de su Buenos Aires querido, orgulloso –sin duda, ingenuamente orgulloso– de su argentinidad y su americanidad, José Gabriel irá comprendiendo en su viaje de 1936 la distancia que lo separaba, como americano, de Europa. América, para él, era un continente plural, abierto al mundo y rebosante de esa humanidad ancha y fraternal que sentía amenazada al observar a los niños del barco. Cuando en su paso por Italia le hablaron de la suerte que tenían americanos y españoles por compartir un idioma común, respondió en seguida con un matiz decidor. Más suerte era la de los americanos: tenían no solo el español sino también el italiano. Esta noción expansiva de lo americano se confunde, sin duda, con lo bonaerense. Así se ve en la simpatía que Gabriel ya sintió en el barco hacia un joven italiano que volvía a su país, aun siendo este un devoto de Mussolini: “El italiano que habla italiano –dulce idioma– apenas es extranjero para mí; pero el que habla cocoliche, el que habla el criollo con tropezones italianos, ni apenas ni nada. Este –lo veo ahora que viajo– me parece, no sé si un argentino más, pero sí un porteño. ¿No es acaso miembro de mi misma familia?”.

*

En un texto rescatado hace poco, José Gabriel escribió que “a los nueve años, pedía yo limosna por las aldeas empotradas en los montes cántabros de la península, a los diez [¿en Argentina ya?] era hortera, a los once peón de panadería, a los doce mozo de fonda, a los trece pintor letrista, a los catorce mensajero, a los quince empleado de escritorio”. A los veinte años ya trabajaba en el periodismo, militaba en la línea sindicalista (no anarquista) de la Federación Obrera Regional Argentina (la llamada FORA) y en el año de la “Semana Trágica” (1919) fue instigador de una huelga legendaria que paralizó durante once días el vetusto y prestigioso diario La Prensa. Poco después publicaría los primeros de sus numerosos libros: los relatos de Las salvaciones (1920), el ensayo La educación filosófica (1920) y la biografía Evaristo Carriego. Su vida y su obra (1921). En la década de los veinte comenzó, también, a trabajar como profesor de literatura en el Colegio Nacional y el Liceo de Señoritas de La Plata, y entró como editorialista y cronista de fútbol en la redacción del vespertino Crítica, que en años venideros se convertiría en el diario de mayor circulación en el mundo en lengua española.
El golpe militar del general José Félix Uriburu, en septiembre de 1930, llevó a José Gabriel a exiliarse en Uruguay, y sería en Montevideo donde escribió Burgueses y proletarios en España. La revolución española. Su origen – su significado – su destino (1932), un folleto que es la antesala de sus libros posteriores sobre la guerra civil. En él, trazó una historia de la larga agonía del viejo régimen –“en 1930, un año antes de su entierro en oro y cortesías, la monarquía no era más que un cadáver en descomposición”–, lamentó que el gobierno recién instituido hubiese contenido el incendio de conventos –“le bastaba al gobierno republicano haber hecho vista gorda ante aquel desmán popular y dejar que el clero nefasto desapareciese de una vez de la tierra española inficionada por él”–, y auguró que la burguesía española no tenía más opción que entregar el poder al proletariado o armarse ilegalmente, “haciéndole un corte de mangas al liberalismo de sus intelectuales”. La mención a los intelectuales no era fortuita. El folleto repudiaba expresamente a esos miembros de la Generación del 98 que en su momento habían promovido la llegada de la República pero abdicaron luego de su compromiso con el nuevo régimen. El 14 de abril de 1931, en un “repentino eclipse de las fuerzas que hasta entonces habían ejercido la dirección espiritual de España”, se “jubilaron” todos, y notablemente los más renombrados: Miguel de Unamuno y José Ortega de Gasset. Así, “una ola de estupidez parece haber invadido la zona intelectual española en el mismo instante de la proclamación de la república”. Años más tarde, durante la guerra y después del triunfo de Franco, seguiría acusando a los intelectuales españoles –con escasísimas excepciones– de no haber sabido o, más bien, de no haberse atrevido a estar a la altura de las circunstancias.
Entre citas de Trotski y analogías entre la situación en España y la Rusia prerrevolucionaria de 1917, Gabriel veía la península como “una de las regiones del orbe más maduras para la revolución proletaria”, sobre todo en vista de la “desesperada inepcia” de su burguesía. Sin embargo, a diferencia de Rusia, que contaba en ese entonces con el partido bolchevique y con líderes excepcionales como Lenin y Trotski, el pueblo español no estaba ni medianamente preparado para una revolución. Además, la mayoría del proletariado militante era anarquista, es decir, “un peso muerto para la lucha de clases”; en cuanto a la U.G.T., se había fundido con los socialdemócratas en un “infructuoso reformismo” y el Partido Comunista, por su parte, era “obediente a la inepta dirección moscovita e inepto por sí mismo” y solo había conseguido “desorientar a las masas”. Los únicos que se salvaban, para Gabriel, eran la Oposición Internacional, y a esta joven y marginal agrupación, seguidora de Trotski, liderada por Andreu Nin, le atribuía el “gigantesco” cometido de “combatir el confusionismo comunista oficial”, librar el proletariado del “opio” del anarquismo y “lograr, con la totalidad o con la mayor parte de la masa trabajadora, la formación del frente único revolucionario”. Le daba un año para cumplir su misión.
El folleto se clausura con dos cartas, la primera de ellas fascinante. Firmada el 23 de abril de 1931, está dirigida al “buen camarada” Manuel Azaña, entonces ministro de Guerra del Gobierno Provisional de la República, y con el que Gabriel se había cruzado en España en tiempos de Primo de Rivera. La carta transmite su alegría, porque “¡al fin se fue quien debía irse y no volverá!”, pero advierte al flamante ministro que aún quedaba mucho por hacer –“El rey se ha ido, pero la monarquía todavía no. Aguardo la noticia del saqueo del Palacio de Oriente”–, y enumera los pasos necesarios para alcanzar la revolución, recordándole a Azaña las palabras de Lenin –¡ni un paso atrás!– y avisándole de la imposibilidad de estorbar el camino de la Historia: “El formidable engranaje del mundo rueda por sus propias fuerzas. Muy poco se le puede ayudar; no es posible contrariarle: somos granitos de polvo entre sus ruedas dentadas”.

*

La ideología de José Gabriel se hizo notoria en mayo de 1933 cuando publicó en Buenos Aires, en Contra. La revista de los franco-tiradores “El titán encadenado”, un homenaje que celebraba a Trotski como un nuevo Prometeo –el que entregó a la humanidad el fuego de la Revolución–, y como un hombre “de doctrina tan vasta y tan honda y de acción ciclópea, una acción y una doctrina más gigantesca que las de Lenin, aunque Lenin lo superase en calidades afectivas y en sentido de la vulgaridad”. Gabriel estaba consciente de la “osadía” de su texto, pero la consideraba una osadía justificada y obligada por la injusticia sufrida por Trotski. Reconocía, eso sí, que era un “mal momento para hablar de un hombre ‘tabú’, excomulgado por reaccionarios y por revolucionarios, arrojado de su casa y de la ajena, acusado de energúmeno por unos, de renegado por otros, acorralado por todos”; un mal momento para “recordar a un hombre que según la ficción jurídica del mundo burgués y del mundo proletario prematuramente aburguesado, no existe”.
La osadía de Gabriel dio lugar a la polémica anticipada y llama la atención de que el poeta Raúl González Tuñón, director de la revista, después de abrir sus páginas –con espíritu de izquierdismo ecuménico– no solo a Gabriel sino a los también trotskistas Liborio Justo (oveja negra de la familia del general Agustín Justo, presidente de la República y su padre) y el exiliado boliviano Tristán Maroff, cerrara la página editorial del último número de Contra (septiembre de 1933) afirmando que “los trotskistas, comunistas sinceros o no, son siempre contrarrevolucionarios. De ellos se aprovecha la burguesía para desprestigiar, no solo a la U.R.S.S., vanguardia del proletariado, sino también al comunismo”. Era de verdad un mal momento para defender a Trotski. Peor, sin embargo, mucho peor, sería hacerlo tres años y medio más tarde.

*

El 15 de septiembre de 1936, Crítica festejó sus veinte y tres años de existencia, jactándose en la portada de los cuatrocientos o quinientos mil ejemplares que emitía cada tarde. Doce días antes, había publicado la crónica inaugural de su “enviado especial” José Gabriel, que sería el primero de los tres corresponsales de guerra del diario: viajarían después, de febrero a agosto de 1937 el poeta y crítico de arte comunista Cayetano Córdova Iturburu, y en los meses iniciales de 1939 el jefe de redacción Raúl Damonte Taborda. La sede del diario, en la Avenida de Mayo, se había convertido en esos primeros dos meses de la guerra en un lugar de reunión para simpatizantes de la República Española: allí podían leer los últimos cables, transcritos sobre pizarras en el vestíbulo; allí podían contribuir a la colecta para la Cruz Roja impulsada por el periódico; y allí, más tarde, iban a poder visitar exposiciones de fotos o carteles de la guerra.
Se publicaron en Crítica doce crónicas de Gabriel enviadas desde España, las más breves por telegrama (se publicaban esa misma tarde en Buenos Aires) y las otras, más extensas, por vía aérea.
(i) 3 de septiembre, fechada en Gibraltar el ¿21? de agosto: “La guerra civil vista desde Gibraltar; primer contacto con la realidad española”. En esta primera crónica, simpatizantes republicanos refugiados en el peñón narran a Gabriel las atrocidades cometidas al otro lado de la frontera, en la zona rebelde de Algeciras y La Línea de la Concepción. Destaca, entre otros, el testimonio del barbero Luis Moreno, que “todavía temblaba” al contar su historia: “hace unos días que los rebeldes le llevaron a fusilar; eran dos con un camión; cerca de la frontera pararon, lo bajaron a tierra, uno dijo: ‘déjamelo a mí’ y el otro hizo funcionar el motor; pero al ejecutante le falló el revólver, a quemarropa, y el reo, aún con las manos esposadas, pudo huir”.
(ii) 4 de septiembre, fechada ese mismo día: “Cataluña, baluarte antifascista, es el arsenal de la República”. Es una crónica que habla de la reorganización de la industria, del optimismo que se palpaba en Barcelona, y de las milicias que parten para el frente cantando. Afirma Gabriel, de paso, que “ayer saludé al escritor ruso [Ilya] Ehrenburg, que salió para el frente”, y termina: “Ahora, solo espero mi turno de periodista, para ir al frente de batalla desde donde informaré a Crítica con amplitud de detalles”.
(iii) 5 de septiembre, fechada ese mismo día: “Con serenidad Cataluña vive el momento trágico”. Habla de la vuelta de cierta normalidad a la vida cotidiana de Barcelona, y relata una entrevista con el presidente de la Generalitat: “le pedí que cambiara los nombres de Argentina y Uruguay que tienen los barcos que han sido convertidos en prisión. El señor Companys prometió hacerlo. También comentó con cortesía la iniciativa argentina tendiente a humanizar la guerra civil [se refiere a los esfuerzos del canciller Carlos Saavedra Lamas], pero objetó que sería más correcto tratar de que cesar la provocación de los alzados”. Relata el entierro de un periodista extranjero muerto en el frente, que “había venido como yo a presenciar la gesta maravillosa de la libertad del pueblo español y pagó con su vida la honra buscada”.
(iv) 10 de septiembre, fechada en Barcelona el 1 de septiembre: “La dramática revolución de Barcelona”. Narra la resistencia popular del 19 de julio contra la sublevación militar. Habla de la cooperación entre sindicatos y partidos, el “milagro” del pueblo en armas y la desaparición de la burguesía (“Ya no hay ‘señoritas’”). Relata la muerte ante el cuartel de Atarazanas del dirigente anarquista Francisco Ascaso, “que con mayor fortuna se había salvado de la policía de Buenos Aires no hace mucho”. Este artículo se reprodujo en el diario chileno Frente Popular entre el 15 y el 17 de septiembre.
(v) 12 de septiembre, fechada el 30 de agosto: “Las diversas tendencias formaron en Cataluña un Frente Único por la Libertad”. Es una crónica que llega con retraso. Cuenta las “primeras impresiones” de Gabriel en Portbou y luego la unidad establecida por partidos revolucionarios para luchar contra el fascismo: “Podría envanecerme de mi suerte; sé que algún día podré decir orgulloso: yo vi en Barcelona el embrión del ejército rojo español”.
(vi) 18 de septiembre, fechado el 13 de septiembre: “La trágica lucha en el frente de Aragón”. El cronista ha vuelto “turbado” del frente y de su primera experiencia directa de la guerra. Ha visto los pueblos de Aragón “como costras en los cerros áridos”, ha oído el “quejido –no estampido, eso es literatura–” de los cañones y “las imprecaciones de los milicianos en el asalto”. Incapaz de descansar, se distrae en la escritura. Explica el funcionamiento de las milicias populares y narra la heroicidad de las milicianas, para la cual sale en busca de todo tipo de analogías pertinentes: “He asistido a acontecimientos de epopeya y de égloga; viví pasajes de Remarque y de Homero, y cuadros de Teócrito y de película aragonesa de Imperio Argentina; y tuve ante los ojos atónitos escenas que no sé a qué ficciones artísticas o poéticas referir, pues he conocido en relatos y en pinturas a mujeres guerreras, pero no haciendo normalmente la guerra, como estas jóvenes catalanas que, fusil al hombro o cosiendo los monos de los milicianos o gobernando la cocina, habitan los pueblos de avanzada y hasta los parapetos”. El protagonismo del yo testigo, eufórico por lo vivido, se desata al final: “Recorrí todo el tramo de la columna Durruti, siempre con el enemigo ahí enfrente, a tiro de escopeta; tomé mate en su cuartel general, donde tuve la suerte de reforzar la previsión de yerba a punto de agotarse; estreché en ella la mano a un voluntario cubano y a cuatro voluntarios argentinos; conversé amenamente con el primer y segundo jefe, ambos largos años residentes en Buenos Aires; y al caer el sol espléndido, con el destacamento que la columna tiene en Osera, a treinta kilómetros escasos de Zaragoza, asistí a un admirable ataque de los milicianos”. En esta y en la crónica siguiente, se reproduce al final la firma de Gabriel.
(vii) 19 de septiembre, sin fecha de redacción: “La trágica lucha en el frente de Aragón”. Gabriel relata detalladamente los acontecimientos adelantados al final de la crónica anterior. Destaca el tuteo omnipresente entre los milicianos –“todos somos camaradas, sin otra jerarquía en el trato”–, y afirma haberse acostumbrado tanto a la costumbre de saludar “en alto los puños, con la expresión que un argentino puede entonar como suya: ‘¡Salud’” como al escarceo constante de chistes en la columna, que se dirigían hasta a los “jefes” sin que se tomara como indisciplina. Pregunta: “¿Acabarán estos hombres por demostrarle a un mundo idiota que no se necesitan para nada los formalismos?”. Narra su encuentro con Durruti, el ataque a Fuentes de Ebro y el camino de regreso a Barcelona. La primera parte de La vida y la muerte en Aragón se basa muy estrechamente en esta crónica.
(viii) 23 de septiembre, fechada en Toledo ese mismo día: “José Gabriel describe la terrible lucha en el Alcázar de Toledo”. El intenso testimonio de su visita a Toledo, relatada aquí y en la crónica siguiente, no figura en los libros de Gabriel: “Llevo cinco días al pie del Alcázar de Toledo, asistiendo entre llamas, truenos, risas y coraje al desenlace de uno de los episodios más intensos del actual drama español. Pugnan, por un lado, una fortaleza cesárea y la voluntad sin entrañas de los rebeldes, y, por el otro, un pueblo enérgico, pero humano. / La lucha, desde luego, es espantosa. Tan pronto surge un incendio voraz o una emboscada en los parapetos. Los tanques intervienen en el asalto y frecuentemente se traban los adversarios en combates cuerpo a cuerpo, con bombas de mano y apóstrofes homéricos. En medio de este infierno braman trombas de plomo candente y se desmoronan las casas de tres y cuatro pisos. Pero todavía este horror sería más trágico si el pueblo ofendido no se contuviese para eludir la crueldad. / Mas en realidad, este sentimiento humanitario prolonga la lucha. / Sin embargo, el final se acerca. Nadie evitará la entrada de los milicianos a los sótanos profundos con espectros y cadáveres, como un descenso dantesco al último círculo infernal. / Nadie piense que los defensores del Alcázar estén resucitando la epopeya de Numancia, porque aquí el pueblo agredido es el sitiador y resultará a la postre victorioso”.
(ix) 1 de octubre, fechada en septiembre sin especificar el día: “Por qué fue tan larga la resistencia” [las imágenes que poseo son de pésima calidad e incompletas; es posible que el título sea más extenso]. Una nota inicial señala que “José Gabriel, enviado especial de Crítica a España, nos remite la crónica que reproducimos acerca del sitio del Alcázar. Fue escrita, como lo advertirá el lector, antes de la entrada a Toledo de las tropas rebeldes”. Obligado a salir de Toledo después de ocho días en la ciudad, el cronista intenta explica a sus lectores por qué los sitiados han aguantado tanto: por un lado, estaban parapetados de manera muy poco hidalga detrás de las mujeres y los niños que habían tomado como rehenes; por otro, se aprovechaban de los sótanos del Alcázar que se extendían laberínticamente por debajo de la ciudad. Gabriel vuelve a hacer alarde de su experiencia como testigo: “He recorrido, entre escombros de casas y de hombres, la mayor parte de los reductos que los confinados del Alcázar tenían; he estado en el mismo Alcázar, en la zona reconquistada a pecho limpio, con un valor que enfría la sangre, por los milicianos y los guardias de asalto”. Su experiencia lo lleva a afirmar que los “audaces recluidos” estaban ya perdidos: “¿Qué pueden esperar ahora, si no la muerte en los sótanos o en una salida desesperada, o una ayuda externa que el pueblo parece dispuesto a impedirles? Ojalá cuando llegue a destino esta crónica se conozca ahí ya el desenlace que yo habría querido presenciar hasta el fin”. Si se contrasta la alusión a los ocho días pasados en Toledo de esta crónica con los cinco mencionados en el anterior, cabe deducir que la fecha de escritura es el 26 de septiembre. Es decir, en vísperas de la llegada de esa “ayuda externa” y la liberación del Alcázar por el ejército de Franco. Cuando la crónica se publicara en Buenos Aires, el desenlace del asedio se conocería de sobra y no era, evidentemente, el anunciado y deseado por Gabriel.
(x) 3 de octubre, sin fecha de redacción: “En Barcelona, un cubano casa y descasa en nombre de las milicias”. El cronista relata una visita a la Casa Lenin, ocupada por milicias del P.S.U.C. en el antiguo Hotel Colón de la Plaza de Cataluña, donde un cubano “divorciador y casamentero del nuevo orden revolucionario”, llamado Arturo Gortazar Álvarez, se encargaba de la resolución “ipso facto” de casamientos y de divorcios solicitados de manera consensuada. Gabriel llegó a actuar de testigo en uno de estos ritos. Así se ve en un foto titulada “Boda laica”, con el siguiente pie: “Los contrayentes, según ‘el derecho del nuevo orden revolucionario’, Eulogio del Pozo Bertoló y Carmen Gabriel Beixeda, con el actuario Antonio Gortazar Álvarez y el testigo José Gabriel, enviado especial de Crítica en la guerra civil española”.
(xi) 8 de octubre, fechada el 26 de septiembre: “Los bombardeos de Madrid”. Habla de los entierros de milicianos, las bombas, la escasez de comida y las larguísimas colas, aunque destaca el buen humor de los madrileños. El “coraje insólito” de los habitantes y de los defensores de la ciudad convence a Gabriel que esta no será vencida. Aun así, la emoción dominante de la crónica es la tristeza, como si se tratase –aunque él no lo diga, no lo quiera reconocer– de un mundo condenado a morir: “Me daban tristeza hasta sus edificios sólidos, macizos, limpios, juguetones de ornato y de luz; me entristecían sus viejas coquetas, sus extranjeros achulados, sus muchachos piropeadores, sus muchachas extraordinariamente hermosas, de una hermosura algo afichesca, como para exhibirse siempre, pero extraordinaria al fin; me entristecían sus parejas acarameladas en el café, mimosas en la vía pública”.
(xii) 9 de octubre, fechada como la anterior el 26 de septiembre: “Lo de España no es ‘Perder o Ganar’ sino Existir o no Existir”. Cuenta su visita al Palacio Nacional, con el fin de solicitar una entrevista con el “camarada Jesús Hernández”, ministro de Justicia Pública, aunque “en realidad, descontaba lo que había de decirme. En estos momentos se puede hacer un reportaje a cualquier funcionario español sin verlo”. Sobre todo, deseaba entrevistarse con Azaña, pero recibió el permiso para hacerlo cuando ya abandonaba la ciudad. La crónica reflexiona sobre el intento de integrar partidos y sindicatos de distintas ideologías en un Consejo Nacional de Defensa y en los Consejos Regionales, y de superar el choque frontal entre socialistas y comunistas que “creen intempestivo hacer una revolución cuando hay que hacer la guerra”, y militantes anarquistas que defienden que “la guerra no puede hacerse eficazmente sin hacer la revolución”. Gabriel se atreve a aportar su punto de vista: “Mi opinión, no de hombre que ha vivido los ‘bureaux’ de los partidos, sino que ha estado en el frente, conversando con milicianos y con campesinos, es que, sea en total, sea en parte, habrá que ceder finalmente a las pretensiones de la C.N.T.”. De todos modos, su reflexión al respecto vuelve al dilema ya presente en el título de la crónica: “Es la discusión de siempre en España, entre marxistas (o que mal se llaman) y anarquistas; pero ahora parece hacer la conciencia de que no es una discusión teórica, sino práctica, viviente, de la que puede resultar, no perder o ganar el debate, sino existir o no existir”. La crónica se cierra con un apartado que regresa a Toledo, y relata la “fuerte impresión” que le provocó a Gabriel, en sus últimas horas en la ciudad, conversar con una mujer que tenía a un primo hermano y a su novio dentro del Alcázar, y que decía a los milicianos “entre sonriente y llorosa: ‘Pero, no mataréis soldaditos, ¿verdad?’”.

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Se podría agregar, a esta docena de crónicas, la entrevista “Jacinto Benavente habla para Crítica”, que se publica el 22 de noviembre de 1936, cuando Gabriel “acaba de regresar de España”. Benavente, ganador del premio Nobel en 1922, permaneció en Valencia a lo largo de la guerra sin apenas llegar a opinar sobre el conflicto y, cosa insólita, sin sentir la necesidad de hacerlo. A mediados de septiembre, a raíz seguramente del desprestigio internacional provocado por la muerte de Lorca, fuentes rebeldes divulgaron el bulo que Benavente había sido fusilado por los “rojos”, algo que se desmintió con la publicación en la prensa el 19 de ese mes de una carta de protesta por la muerte del granadino firmada por Benavente. El comienzo de la entrevista resulta, sin duda, extraño. El dramaturgo afirma que no cree que Lorca haya muerto fusilado: “¿Por qué lo iban a fusilar?”. Debían de haberlo matado por error. Cuando Gabriel le recuerda, como posibles motivos, el hecho de que su cuñado fuese el alcalde socialista de Granada o que hubiese manifestado en ocasiones simpatías comunistas, responde: “Vaya, pero no era nada de eso. García Lorca no había llegado al pueblo; era un señorito, que le gustaba la buena vida, detestaba las cosas de abajo, y hacía una literatura para capillas”. Cuando Gabriel insiste en que está equivocado, el joven secretario de Benavente se apresura a informarle que “Don Jacinto ha perdido algo el oído” y no lo escucha.
La reticencia y displicencia del entrevistador, que ya se despedía de España, es notoria. Un fragmento, de tintes homófobos, bastará para verlo:

Ninguna presa más fácil que Benavente para la ironía. Quizás porque ha dedicado él tanto a los demás, se le puede dedicar tanto a él. Puede hacérsele blanco de ironía y de sarcasmo […]. Es fácil burlarse de su figurita de vieja, de sus erres zezeadas, de las señales de criada que va haciendo con los dedos para enumerar sus argumentos, de su risita de señor-conde que aparenta congraciarse con la servidumbre, pero está desando que se la saquen de delante. ¿A qué buscar un triunfo fácil? […]
–Usted y Unamuno –le digo– representaban en la generación del 98 dos posiciones, no opuestas pero diferentes.
–Sí, es verdad…
–¿Por qué Unamuno ha fallado ahora, cuando parecía que se realizaba lo que el 98 quería?
–Hombre, a Unamuno hay que aceptarlo como es. Nosotros, los artistas, tenemos nuestro pensamiento y no podemos pensar como todos. No militamos en política.
–En política de comité, acaso no; pero Unamuno, más que una posición de artista, tenía una pretensión de pensador de su pueblo.
–Hombre, sí; pero siempre le ha gustado contradecir. Hace años lo trajeron a Madrid para que hablara contra la ley de jurisdicciones, que protegía de la crítica a los militares, y salió hablando en favor del militarismo. Otra vez, le llevaron los vascos para que ensalzase su nacionalismo, y les criticó. Es su costumbre, es su costumbre –y Benavente se ríe con su civilizada risa de compromiso que yo por civilizado también le tolero, pero que me causa dolor en las mandíbulas.

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¿Por qué regresó José Gabriel tan precipitadamente y sin aviso previo de España? ¿Será que Crítica perdió paciencia y confianza en su enviado especial después de que anunciara, el día antes de la caída del Alcázar, que los sitiados estaban perdidos? ¿Hería el orgullo del diario tener que publicar esa crónica –por otra parte, tan rica en su testimonio– cuando estaba ya más que consumada la derrota republicana en Toledo?
Puede ser. De todos modos, algunos meses más tarde, cuando Gabriel ya era blanco del ataque de muchos intelectuales antifascistas argentinos, empezó a consagrarse otra versión: fueron las autoridades españolas quienes lo obligaron a abandonar el país. Según el narrador comunista Raúl Larra, en un artículo titulado “Las opiniones de José Gabriel sobre el Frente Popular” y publicado en La Nueva España, el cronista fue expulsado de España “por inconducta y por afirmar que los milicianos carecían de decencia” (21 de febrero); en el mismo periódico, Leopoldo del Signo propuso otro motivo: “Él no predicaba ganar la guerra y después hacer lo demás, sino, primero la revolución y después ganar la guerra. Ni más ni menos que agravar al enfermo y luego querer curarlo. Y como los españoles tienen bastante criterio, cortaron el asunto expulsando al genio gabrielino” (“José Gabriel, el último gaucho”, 13 junio).
No debería sorprendernos. En España en la cruz, Gabriel relata su encuentro con el cónsul argentino en Barcelona, Jorge Blanco Villalta, un viejo porteño liberal “de excelente humor criollo” que le recomienda cautela: “Me aconseja que no me meta en nada, y que si tengo que opinar, que diga que todo me parece bien: ‘los ánimos están exaltados, hay muchas suspicacias, ¿para qué comprometerse?’”. Pues en la última de sus crónicas enviadas, que reseñé arriba, “Lo de España no es ‘Perder o Ganar’ sino Existir o no Existir”, Gabriel desoyó al cónsul y dejó dicha su opinión, comprometiéndose con ella con la postura de los anarquistas (y del P.O.U.M.): primero la revolución y después (y si no después, al mismo tiempo) ganar la guerra. En un momento en que tanto el gobierno en España como las fuerzas favorables a un Frente Popular en Argentina abrazaban la línea “práctica” promovida desde Moscú –hoy el triunfo, la revolución mañana–, la voz de José Gabriel resultaba, quizá, demasiado discordante para las páginas del diario más efusivo y eficaz de las Américas en su apoyo a la República.

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En 1933, José Gabriel habló de Trotski como “el hombre ‘tabú’, excomulgado por reaccionarios y por revolucionarios […], acusado de energúmeno por unos, de renegado por otros, acorralado por todos”. Le tocaría a él, ahora, ser hombre tabú. La primera de sus crónicas ya suscitó una reacción cargada de desdén en el diario filofascista Crisol, donde un artículo del 5 de septiembre, “Gabriel, el traidor”, informó sobre la publicación en el “Pasquín Innominable” de una crónica desde Gibraltar del enviado especial de Crítica, y preveía que las informaciones enviadas a continuación serían “un almácigo de mentiras, de calumnias y de insolencias”, y “servirán de pasto para alimentar a las bestias del bajo fondo porteño”. Postulaba, por otra parte, una mala conciencia en el flamante corresponsal: “La razón es sencilla. Gabriel es español de nacimiento y al volver a la tierra de sus mayores y propia, y ver que sus conciudadanos se desangran, ha de tener reales deseos de tomar parte en la lucha… naturalmente, a favor del gobierno. Pero como el miedo lo domina, mirará las cosas desde la ventana. Y eso es en el fondo una traición, una nueva traición que hace a sus propias ideas. Por ello se debe tener asco él mismo. Que con su pan se lo coma”.
Como al hombre tabú que tanto admiraba, los ataques le llegaban desde todos los flancos ideológicos. El artículo de Raúl Larra que he citado arriba fue la respuesta a un anticipo de España en la cruz, publicado en la revista Señales, y muy crítico con el Frente Popular. Esas críticas, según Larra, eran las mismas que se leían en la prensa fascista, y el argumento de Gabriel de que Companys y Azaña estaban controlados en su acción por diplomáticos soviéticos tenía una “afinidad peligrosa con los de los reaccionarios”. En esa misma línea, un editorial de La Nueva España, publicado cuando España en la cruz estaba ya en la calle, denunció el libro como “el más canallesco infundio contra España de que se tenga noticia hasta la hora presente” e informó, además, que Gabriel acababa de lanzar un manifiesto denunciando los sucesos de comienzos de mayo en Barcelona, lo cual “complementa su aporte a la causa del traidor Franco”. El editorial hilvana una serie de calumnias, hablando del escritor como “víctima de un evidente complejo de inferioridad”, como un “caso patológico” necesitado de un psicoanalista, y recurre al ataque ya ensayado por Crisol, insinuando su cobardía. A fin de cuentas, ¿por qué un español como él, “viendo en peligro las conquistas de los trabajadores españoles” y estando en su país, solo iba a atinar a “salir de la zona de lucha y de España misma para venir a los ’36 Billares’ [un bar en la Avenida de Mayo bonaerense] a hacer desde aquí la defensa del proletariado español” (“José Gabriel”, 30 de mayo).
Lo cierto es que los propios editores de España en la cruz –la editorial Ercilla de Santiago de Chile, dirigida por el aprista peruano en el exilio Luis Alberto Sánchez– parecen haber dudado o haberse arrepentido cuando el libro estaba ya listo a publicarse. Solo así se explica el intento de curarse en salud de la pequeña nota introductoria, según la cual “hay que decir que este documento, aunque lleno de vibración humana, es unilateral”, y que “la riqueza de colorido y la hondura de la visión están determinadas por un sentimiento preconcebido y una idea trazada de antemano, respetable, pero existente y manifiesta”. La nota quería hacer explícito, además, que la impresión del libro no significaba “ningún abanderamiento” por parte de la editorial, sino más bien una apuesta por incluir “ideas de diferentes puntos de partida” y por tratar de “reflejar lo contemporáneo en todos sus aspectos”.

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A pesar de las críticas y las dudas de última hora de Ercilla, España en la cruz (Viaje de un cronista a la guerra) se publicó en el otoño austral de 1937, probablemente en abril o comienzos de mayo. En su elección del título Gabriel, como otros tantos intelectuales antifascistas, se rebeló contra la visión maniquea –propagada desde el bando franquista y la Iglesia– de una guerra santa de católicos contra ateos, reclamando la figura de Cristo como modelo de martirio y ejemplo de la pureza del sacrificio por una causa. Ahí están títulos como Resurrección: impresiones de una conciencia libre sobre la epopeya heroica del pueblo español, una novela del uruguayo Elías Castelnuovo publicada en Buenos Aires en septiembre de 1936; “El miliciano Jesucristo”, un relato del chileno Andrés Sabella de 1939, y del mismo año el magistral España, aparta de mí este cáliz, de César Vallejo, tan vibrante de imaginería litúrgica y de milicianos que se levantan de la muerte y andan como Cristo o como Lázaro. Gabriel explicaba el título en un breve prólogo: “quiero dar a entender que España, como Jesús, haya de morir crucificada, sino que aun muerta redimirá al mundo occidental”; y dio gracias al diario Crítica por darle la oportunidad de “vivir la redención española”. Lo cierto es que la analogía con Cristo no lo intimidaba. Más tarde en el libro, cuando el capitán francés del buque que lo llevaba a Europa, que consideraba a Gabriel un subversivo, le prohibió seguir bajando a la bodega para fraternizar con los viajeros de tercera clase, comentaría: “Jesús descendió más, descendió a los Infiernos. Cuando la revolución dice que hay que proletarizarse para entrar en el mundo nuevo, dice que hay que efectuar el descenso de Jesús”.
En un momento en que sus ideas eran ideas tabú a oídos del lector antifascista habitual, el autor seguía confiando en el poder de su palabra al prologar España en la cruz: “Creo que haré algo bueno, para la España buena, para la Argentina buena y para todos los hombres de bien”. Consciente de la urgencia de comunicar su visión y experiencia del conflicto, se arropaba también en un “maravilloso” epígrafe –así lo diría él– tomado del Don Juan de Byron, que ensalzaba el papel del escritor en la lucha por la libertad:

Quiero combatir al menos con palabras
Y, si tuviese suerte, con hechos,
A todos los que luchan contra el pensamiento…
No es que adule al pueblo:
Hay sin mí suficientes demagogos,
Fieles por demás, para demoler todos los campanarios
Y construir en su lugar otra cosa mejor.
Si sembramos el escepticismo para cosechar el infierno,
Como pretende un dogma cristiano bastante rígido.
No lo sé. Lo que quiero es que los hombres sean libertados,
Los del pueblo como los reyes, tanto yo como ellos.

No sé si la traducción es del propio José Gabriel, pero no es buena. Los últimos dos versos se entienden mal en su canto a la libertad que tenía mucho, en el original, de canto libertario; deberían hablar del deseo del poeta de que “los hombres sean libres / tanto de las muchedumbres como de los reyes, tanto de ti como de mí”. Interesante, por otra parte, es la traducción del sexto verso del epígrafe; el original habla no de fieles sino de infieles: “Hay sin mí suficientes demagogos, / e infieles, para demoler todos los campanarios…”; y son ellos –esos demagogos, esos infieles–, y no nosotros, los que sembrarán el escepticismo. Byron rechazaba no solo la monarquía y la Iglesia, sino a cualquiera que intentara sustituirlas con otra autoridad, por esa “otra cosa mejor”. Es fácil imaginar la interpretación de Gabriel: no a la monarquía y la Iglesia; no, también, a los republicanos y comunistas que querían sustituirlas sin cambiar –según él– nada de raíz.

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Quiero combatir al menos con palabras / Y, si tuviese suerte, con hechos. Por eso se hizo corresponsal de guerra. En una de sus crónicas enviadas a Crítica, aludió José Gabriel al entierro de un periodista extranjero. En España en la cruz lo describiría con detalle: el cortejo de ciudadanos en camiseta y milicianos en mono acompañando el féretro, desfilando mudos, las banderas y los crespones, las flores y los fusiles, los puños levantados en silencio, y también la reflexión, la toma de conciencia de que un corresponsal de guerra no va de turista a los frentes. Es una toma de conciencia que conlleva su emoción, pero también un sentimiento de orgullo por una “misión” que acarreaba el peligro muy real de morir.
De todos modos, el oficio de corresponsal de guerra repugnaba a Gabriel. Vio en España a demasiados periodistas profesionales, que consideraban precisamente su trabajo como un oficio, y que eran “deshonesta y honestamente mentirosos… o frívolos”. Por paradójico que pareciera, ser honestamente mentiroso no era en sí tan difícil. Gabriel no vio a muertos en las calles de Barcelona pero otros, aun sin verlos, terminaban creyendo en su existencia y se convencían a sí mismos de que los había visto: así como un cobarde lo creería por miedo y un enemigo por conveniencia, un periodista lo creería por “necesidad profesional”, porque no podía permitirse defraudar a sus lectores; “tiene que confirmarles, por lo menos, que ha visto algo: un cadavercito, dos”; y cuando se trataba de escribir desde el frente, evidentemente, la “honestidad de la mentira” y las expectativas del público obligaban a magnificarlo todo: el miedo, los efectivos, las bajas y los peligros. Esas necesidades, aseguraba Gabriel –dando así, sin duda, legitimidad a su propio testimonio–, no le atañían a él, porque él fue a España “sin oficio, como voy a todas partes, como hombre, no como corresponsal de guerra”. Era militante, sí, “pero de la sinceridad”, así “que no se me pida” –espetaba a sus lectores– “un cadáver barcelonés, ni un atraco en la vía pública, ni un registro domiciliario, ni un saqueo”.
Ahora bien, si la presión de los lectores nublaba la visión del periodista profesional, convirtiéndolo a veces en “mentiroso honesto”, el dilema de Gabriel era cómo expresar la carga emocional de sus experiencias, de los pasos que lo llevaban “de asombro en asombro” por la ciudad revolucionaria de Barcelona, sin llegar a falsificarla y sin caer en lo trivial. ¿Cómo estar, como escritor, a la altura de las circunstancias? A fin de cuentas, y así lo cuenta él: “Asistí al parto de un nuevo mundo, parto doloroso y placentero como todos; y esta asistencia, después de la de mi mujer y la de mis hijos, puede ser ya, si Dios no me tiene reservadas otras, la satisfacción de mi vida. Referiré lo que vi y viví; pero ¿cómo transmitir su emoción?”.

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Raúl González Tuñón, en el que para mí es el más grande de sus poemas, se definió en un verso célebre: “soy triste y cordial como un legítimo argentino”. Puede que Tuñón, que también fue corresponsal de guerra en España –uno más en la nómina de cuarenta y cuatro reunidos por Jesús Cano Reyes en un libro magnífico: La imaginación incendiada. Corresponsales hispanoamericanos en la guerra civil española (2017)–, haya sido triste y cordial. José Gabriel, por su parte, era cordial y sobre todo sentimental. Su libro España en la cruz comienza con el llanto. Mientras el barco se aleja del puerto de Buenos Aires, observa el autor las risas y lágrimas de su mujer, sus hijos, sus hermanos y sus amigos; cuando ya los pierde de vista, se conforma con “mirar dentro de mí las lágrimas que la valentía de mi compañera no pudo enjugar en sus ojos, los gemidos que vencieron la preocupación frívola de mi hija, y la mano tendida del hijo que parecía extrañar por qué su padre, ante ese ademán, no lo tomaba en brazos”. Ya a solas, a bordo, serán sus propias lágrimas las que lo acompañen: “Yo creía que escribir llorando, solo era una figura literaria; y sin embargo, esta noche, irremediable ya mi soledad, al buscar en la palabra escrita, como otras veces, un alivio, tengo que apartar del papel la cara para evitar el borrón que haría de mi llanto un tropo”.
Más tarde, por supuesto, la emoción de asistir al parto de un nuevo mundo volverá a hacerlo llorar. En la Argentina militarizada de los años treinta, primero golpista (el año y medio en el poder de Uriburu), luego reaccionaria y represora (bajo Justo), ya no podía emocionarse como antes con los desfiles del ejército, pero en Barcelona, dice, “he llorado en la Plaza de Cataluña viendo desfilar una columna miliciana que va para el frente. Era una columna comunista, perfectamente equipada y con música marcial y banderas”. Era, para Gabriel, como volver a la infancia: “Aplaudí, vivé, icé el puño esta tarde en la Plaza de Cataluña presenciando la formación en marcha de las milicias populares, el embrión impresionante del Ejército Rojo. Volvía a ser pibe, vivía, resucitados para mí, viejos episodios históricos, encarnaba lecturas y estampas, asistía al nacimiento de un futuro maravilloso”. Después del desfile, sentados en la terraza de un café, tuvieron que enjugarse los ojos no solo él, sino también el corresponsal uruguayo Etcheto (Alberto Etchepare) y un compañero platense. Cordiales, sentimentales y quién sabe si tristes los tres…

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La nostalgia de José Gabriel se siente en el fervor que le produce, una y otra vez, encontrarse en España con argentinos o con españoles que han vivido en su país. Sucede, en La vida y la muerte en Aragón, en el frente con Durruti, y en España en la cruz en su encuentro con Diego Abad Santillán, antiguo director del periódico anarquista La Protesta de Buenos Aires, que seguía hablando con acento “nuestro”, que le preguntaba por amigos comunes, y que le decía: “Pero, hombre ¡si yo soy más sudamericano que español!”. Mientras contemplaba a Santillán, intentando detectar cuáles eran los elementos argentinos que conservaba, se dio cuenta de repente de lo obsesivo de su búsqueda y encontró la explicación en “mi deseo de encontrar paisanos míos; ¡o mi ilusión de que todo esto estuviese ocurriendo en Buenos Aires!”. Volvería a emocionarse al conocer, en la Casa de Lenin del P.S.U.C., al “camarada Julio, que también ha estado en Buenos Aires y conserva nuestro acento –me conoce como cronista deportivo: algo es algo–”, y a Joaquín Almendros, “otro porteño y hasta excompañero en mi propio diario: ¿será Buenos Aires todo esto? ¡sueños azules!”.
De su visita al consulado argentino de Barcelona, afirmó Gabriel que “no olvidaré nunca el momento auténticamente argentino que viví con el Dr. Blanco Villalta”, y hasta llegó a emocionarse con el consejero de cultura de la Generalitat, Ventura Gassol, al que recordaba sin cariño de los tiempos de la monarquía cuando este acompañó en su exilio en Buenos Aires a Francesc Maciá. En el breve esbozo del encuentro está encarnada la cordialidad sentimental del autor: “No lo traté en Buenos Aires: me fue simpático su republicanismo perseguido, pero no me atrajo su pinta de poeta bohemio. Pocas palabras me bastan ahora para sentirme afecto a él. ¡Si viera V. –me dice, como espichando algo que tenía embuchado– con qué nostalgia recuerdo la Argentina! No son palabras meramente corteses: se les ve la emoción: Gassol, como poeta, habla y se delata: le tiemblan las mejillas y se le aniñan los ojos al decirme: ¡Si viera V…!”. No cuesta imaginar un temblor idéntico en las mejillas de Gabriel mientras veía y escuchaba al poeta, y una correntada de nostalgia atravesándole las venas.

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Hay menciones al “Casbah” en La vida y la muerte de Aragón, que se corresponden con una teoría elaborada por José Gabriel en su libro anterior. En su viaje en barco, pasó brevemente por Milán, Génova y Marsella, pero lo que vio de Europa lo entusiasmó más bien poco, y se comparaba siempre mal con su añorada patria, con su América. Frente a los espacios abiertos de las ciudades americanas (y sobre todo de su Buenos Aires), veía la urbe europea como un vestigio de la Edad Media. La reflexión le llegó a raíz de sus visitas a Dakar y Casablanca, y sobre todo de su paseo fascinado por el “Casbah” argelino, que las autoridades francesas habían amenazado con dinamitar (de este rumor sacó amplio provecho en sus reflexiones). El viaje le había enseñado que los barrios viejos de las ciudades europeas no diferían del Casbah en su falta de espacio vital, en su ausencia de cielo, en los recovecos y retorcimientos de sus calles, y en la apretada promiscuidad de su convivencia. Para Gabriel, Génova era “un Casbah con algo menos de mugre aparente” y Marsella, por su parte, “como otras ciudades del viejo mundo, si no es el Casbah exacto, se le aproxima mucho y está en el modelo. Europa –por lo menos la Europa mediterránea y en ella lo europeo genuino, lo que no ha sido higienizado e iluminado por América– es un inmenso Casbah, en el que, para mayor propiedad del símil, también está a punto de explotar la dinamita”. Cuando llega a Barcelona y se dirige a su pensión de la calle Escudillers, en pleno barrio gótico, se siente “de nuevo en Marsella, en Génova, en el Casbah. Estoy en pleno Casbah. Con el Casbah en los ojos, ya no me sorprende tanto este nuevo Casbah; pero acaso me aturde más, porque es el amplificado Casbah genovés y al mismo tiempo el argelino, un tumulto de casas altas y de gente, un viboreo de calles, un torbellino en las plazuelas, una fugitiva caverna viva”. Atrapado en ese laberinto de callejuelas, no dejaba de “pensar con nostalgia en mi Buenos Aires, tan franco y tan limpio”.
En efecto, no podían ser iguales de espíritu los europeos que vivían en las cavernas del Casbah y los americanos acostumbrados al campo y al cielo. Obligados a la existencia colectiva, ¿no era natural que esa vivencia cavernaria se tensara poco a poco hasta reventar en la Revolución Francesa y estallar ahora en la revolución desencadenada en Barcelona el 19 de julio ?

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El hecho de viajar en un barco francés, y estar rodeado de oficiales y viajeros que él intuía eran simpatizantes del fascismo, llevó a Gabriel a reflexionar sobre Francia, y sobre el Frente Popular que gobernaba en Francia, desde las primeras páginas del libro. Estas reflexiones, en el contexto de la lucha en América –fallida en Argentina, exitosa en Chile– por un frente antifascista capaz de alcanzar el poder, estaban destinados a levantar polémica. Para Gabriel, sin embargo, ese “invento político de nuestros días” no era más que un “reemplazante desnaturalizador” del Frente Único que años atrás había planteado Trotski. No creía en él como “agente de la revolución” y en España –a su juicio– no había servido para nada, hasta tal punto que la República se habría perdido si no fuera por el proletariado que se levantara en armas a defenderla. No podía ser más explícito: “Frente Popular es, para mí, casi casi narcótico popular; lo es sin casi casi en su extremo carnavalesco, como se está tentando en la Argentina”.
Hacia finales de España en la cruz, en sus reflexiones sobre la política española, habló de la República como una sucesión de traiciones, primero de Miguel Maura y de Niceto Alcalá Zamora, luego de Manuel Azaña, luego de Alejandro Lerroux y por último, también, del Frente Popular, que empleó armas contra el pueblo que le había dado el poder. Ahora bien, el fracaso de la sublevación militar hacía ver a Gabriel que España tenía un espíritu y un impulso vital ausentes en el resto de Europa. En este sentido, acudió por apoyo a un tópico: “El socialismo disciplinó a Europa y la dejó así apta para el fascismo… y para el estalinismo. Gracias que Europa termina en los Pirineos”. En 1932, cuando comparó la situación de la República con el ambiente prerrevolucionario en Rusia de 1917, veía que faltaba un proletariado medianamente preparado para luchar. La analogía lo llevaba, en 1937, a otras conclusiones sin duda idiosincrásicas. Por lo que había visto en España, confiaba en que el país sabría evitar los errores soviéticos, y que no caería en el despotismo estalinista precisamente porque no era Europa, y por lo tanto sería capaz de consolidar una democracia verdadera: “Esto no es Rusia, es la democracia. Rusia es Europa; por lo menos, actualmente prevalece en ella el europeísmo; y en cuanto es Europa o europeizante, no difiere mucho de Italia o de Alemania, llámese comunista o como se quiera. España no es Europa; los que quisieran que lo fuese son los sediciosos y el campeón del 98 europeizante, Unamuno, que por algo está en la otra barricada; el pueblo leal quiere que sea Iberia, quiere que sea ella misma, y por eso realiza la democracia, que no es europea”.
Era la España de los milicianos, de los defensores de la libertad repudiados por la República durante cinco años. Era la España del pueblo que se levantó en armas, del “pueblo, última consistencia humana, conexión del mundo con Dios, que no falla nunca”. Gabriel la encontró en los militantes del P.O.U.M. Su pensión en Barcelona se encontraba, por azar, al lado del cuartel del P.O.U.M. y vivió con emoción el contacto físico “con hombres a los que estoy espiritualmente vinculado desde hace años”. Aún más que ellos, sin embargo, eran los anarquistas quienes deslumbraron al cronista. Ventura Gassol le contaría así, lleno de admiración, su heroísmo del 19 de julio: “los republicanos peleamos ¿eh? pero los anarquistas fueron formidables”.
Tanto en sus vivencias españolas –como esa última crónica enviada desde la península mostraba– como en las reflexiones posteriores de España en la cruz, se alternan en Gabriel la esperanza y el pesimismo, la fe en el triunfo de la revolución y el temor ante las fuerzas empeñadas en desactivar el poder conquistado por el pueblo en armas. El miedo estaba allí, porque él había visto cómo republicanos, socialistas y comunistas “empezaban a hacer con el anarquismo lo que sus inspiradores los estalinistas rusos, tan superiores a todo maquiavelismo conocido, habían hecho con Trotski: intentar eliminarlo de la historia, comenzando por rebajarlo. Temo que aquello que empezaban lo están llevando ya adelante resueltamente”. Aun así, también había visto el poderío de un pueblo unido y eso pesaba más, a veces, que sus dudas y temores. La amenaza del fascismo y la sangre derramada harían que la unión de las fuerzas revolucionarias prevaleciera, al final, por encima de las discrepancias. No podía ser de otra manera. “Cataluña es un nuevo mundo en marcha”, declaraba, “no hay que dudarlo”, y esa vivencia le ofrecía una esperanza firme para el futuro: “Sin caer en el panfilismo de los sueños paradisíacos: ¿Quién puede dudar de la grandeza de lo que vendrá?”.
Haber vivido la ebullición revolucionaria en España era un privilegio. Había sido testigo de “un mundo pleno, feliz o, mejor aún, trabajando y luchando alegremente por ser dichoso, mereciendo serlo; y esto, si no lo pispaban en seguida los ojos, lo tocaba el corazón y se grababa dentro”. España en la cruz, publicado pocas semanas antes de los eventos de mayo, con la intuición quizá de que iban a ocurrir pero sin renunciar a la esperanza de que no, terminaría refugiándose en la emoción de la experiencia vivida: “Aquello era simplemente un mundo de hombres buenos. Yo lo vi con ojos ávidos y conservo su imagen; y cuando el ambiente me hostiliza ahora y me obliga a refugiarme en mí mismo, me miro adentro y me digo: si esta pobre humanidad supiese lo que veo me envidiaría como a un dios”.

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Los hechos de mayo sentenciaron para siempre la unión revolucionaria anhelada y palpada por Gabriel. El editorial de La Nueva España que mencioné arriba alude a un manifiesto que este debe de haber escrito repudiando el desmantelamiento de la revolución y la campaña propagandística lanzada por el gobierno republicano y sus aliados comunistas para justificar el enfrentamiento con los anarquistas y el P.O.U.M. Esos hombres y mujeres a los que estaba “espiritualmente vinculado desde hace años” se habían visto acorralados y perseguidos. El 28 de mayo, el nuevo primer ministro Juan Negrín cerró su diario La Batalla; el 16 de junio, el partido fue ilegalizado y Andreu Nin y otros dirigentes detenidos. En los días siguientes, Nin fue interrogado, torturado y asesinado en Alcalá de Henares. Ya se sabe la historia y no hace falta volver a George Orwell, y los intentos desesperados de publicar su testimonio en la prensa británica, para recordarlo. Era un mal momento para verdades incómodas, un mal momento para una historia tabú.

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Hemos visto arriba la indignación de José Gabriel cuando Benavente habló de Lorca como un señorito apolítico, ajeno al pueblo y autor de una literatura “para capillas”. Un año más tarde, el cronista –que llevaba once meses sin aparecer en Crítica– publicó en sus páginas un homenaje a Lorca, veinte y tres fragmentos en prosa bajo el título “Hace un año que los facciosos asesinaron a García Lorca” (7 de octubre de 1937). Se inicia como un lamento, marcado aún por la incredulidad ante la noticia de su muerte:

Hacia un año que los facciosos españoles fusilaron a Federico García Lorca. Crimen bárbaro, hecho que solo sería estúpido si no fuese un crimen. ¿Qué se castigó con él? ¿Qué se remediaba? Brutalidad ciega. Nada ni nadie nos devolverá al poeta, pero sería un alivio para la condición humana descubrir que solo había sido una equivocación, un accidente, un tiro que se le escapó a un guardia civil borracho, un atropello del tráfico en una carretera.

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Cuando hemos visto a los facciosos asesinar sin piedad niños en las calles, en las casas, en las escuelas, en los hospitales de Madrid, ¿qué mayores crímenes podemos reprocharles? Pero quizás solo esas enormidades superan a la enormidad del asesinato de García Lorca. ¿Qué hacía el poeta? ¿Por qué mereció la última pena? No era un político; apenas podía llamársele líricamente izquierdista. ¿Qué castigaron en él los esbirros de Franco? Y ¡cuánto mataban al matarlo!

Gabriel defiende los vínculos de Lorca con el pueblo –su obra era “toda, absolutamente toda, de extracción popular”– y encuentra, de hecho, como único móvil plausible de su muerte el de “castigar a un representante de su pueblo; pero no a un representante electoral, sino a un representante espiritual, racial, sanguíneo”. A fin de cuentas, cuando Lorca fustigaba a la Guardia Civil, sus versos participaban en un odio secular, bien enraizado en el pueblo. Acaso recordaba las palabras de Benavente al apuntar que “García Lorca –preciso es decirlo– pudo ser considerado, y se le consideró un tiempo, un señorito andaluz, un granadino de familia acomodada que había estudiado derecho y filosofía, que practicaba la pintura y las letras y que no desdeñaba las juergas”. Aun así, quedó cautivado por la inspiración de su pueblo: “la gitanería lo atrapó y dejó de ser señorito”. Como en tantos homenajes al poeta fusilado, Gabriel no podía dejar de aludir –como si algo hubiese de profecía en ellos– a los poemas de Antoñito el Camborio y también, por supuesto, a Mariana Pineda:

Viendo a Mariana Pineda, condenada al cadalso, dice una novicia del convento de Santa María Egipcíaca de Granada: “Ya están abriendo flores – que irán contigo muerta”. Llegaba en junio del 36 a casa de sus padres, en Granada, el poeta, y ya abrían flores que podían haberlo acompañado en la sepultura. […]

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Supo García Lorca, desde que lo prendieron –como a Antoñito el Camborio, porque su corazón era gitano–, que lo iban a matar: Lo supo en la cárcel y lo supo cuando lo sacaron para apuntarlo contra la tapia donde había de desplomarse. Lo mismo que Mariana Pineda, habrá sentido entonces el mundo entre sus dedos “como un grano de arena”. ¡Bah! Y así pudo salir del mundo sin flojedad. Es ya conocido que les dijo serenamente, alegremente, a sus verdugos lo que ellos le escamoteaban: que lo conducían a la tapia.

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“¡Corazón, no me dejes! ¡Silencio! Con un ala, ¿dónde vas? Es preciso que tú también descanses. Nos espera una larga locura de luceros –que hay detrás de la muerte–. ¡Corazón, no desmayes!” Así musitaba Pineda la granadina al ir al patíbulo. García Lorca le pidió al jefe del piquete de ejecución que le permitiese escribir unos versos. No se lo permitió: le urgía acallar la voz del pueblo. Habrá que desenterrar un día el cadáver del poeta: en su frente estarán escritos sus últimos versos. […]

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Fusilaron al poeta en el pueblecito de Viznar. Antes de morir hizo firmes protestas de cristianismo liberal y dio vivas a la libertad y a la república. ¿No es eso mismo su pueblo? “¡Yo soy la libertad porque el amor lo quiso!”, proclama, también, antes de morir, Marianita la liberal. Después de muerto, se llamó a prisioneros masones y se les obligó a sepultarlo en Alfajara, término de Viznar. Allí estará floreciendo. Florecía todo lo que tocaba. Era el Generalife y el Valle del Genil.

José Gabriel volvería a este texto en 1939, para editarlo como folleto con el título Ditirambo a García Lorca.

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Me he dedicado en estas páginas a indagar en el viaje y los escritos de José Gabriel que conducen y rodean a este libro, La vida y la muerte en Aragón, que se publicó en Buenos Aires, en Ediciones Imán, en 1938. En la última página de España en la cruz, se leía estampado en azul y en mayúsculas: “Este libro continúa en España atormentada del mismo autor”. Es un título, evidentemente, que no prosperó.
Hay tres novedades en La vida y la muerte en Aragón. En primer lugar, aparte del prólogo, el libro es casi exclusivamente testimonial y carece de las reflexiones y disquisiciones políticas de España en la cruz; por otra parte, trabaja con episodios del viaje de Gabriel que no figuraban en el libro anterior; por último, es un testimonio terminado y publicado después de mayo de 1937, es decir, sin ambigüedades, sin esperanzas falsas y sin pelos en la lengua.
El prólogo plantea de frente la perspectiva del autor: fueron dos imperialismos –“el llamado FASCISTA y el llamado DEMOCRÁTICO”– los que hundieron la revolución en España. La ideología, por supuesto, llega en el testimonio pero de otro modo. No es casual, por ejemplo, que esa línea solitaria dedicada a Ehrenburg en una de sus crónicas se haya convertido en un capítulo entero: el primero. “De Rusia”, dice Gabriel, “no se habla hoy con franqueza sino en las alcobas”. Él sí habla con franqueza, lo ha hecho en su prólogo, pero ejerce ahora una estrategia más bien narrativa. Con su facha “de rusito y de burgués”, con esa mezcla “de desdén y de afectividad”, ahí está Ehrenburg en el comienzo mismo del testimonio, como símbolo inamovible del poder soviético que terminará aplastando, con la connivencia de los demócratas republicanos, todo lo que aparece a continuación de ilusión y promesa y esperanza.

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Atacado desde la derecha y la izquierda, Gabriel seguiría defendiendo su perspectiva sobre España en la revista trotskista Inicial. En ella denunciaba el encarcelamiento y la campaña de calumnias y hostigamiento judicial sostenida desde hacía más de un año contra los militantes del P.O.U.M: “Ahí, en las cárceles de la República española, condenados a larga reclusión, mal vestidos y medio muertos de hambre, y siempre amenazados con la muerte artera, están algunos de los héroes (los otros ya los han asesinado) que salvaron con su arrojo a la República e iniciaron con ímpetu la redentora revolución proletaria ibérica. Y es la República, precisamente, la que los ha encarcelado, después de calumniarlos convenientemente; y el proletariado contempla sin indignarse de la infamia”. Volvía, por otra parte, a denostar la idea del Frente Popular, precisamente en el mes en que al otro lado de los Andes Pedro Aguirre Cerda fue investido presidente. “Hoy estamos tutelados”, advertía Gabriel; “El Frente Popular vela por nosotros en todo el orbe. Y es el Frente Popular el que asesina a Durruti en Madrid, a Berneri en Barcelona, a Nin en Alcalá de Henares, y el que condena a largos años de cárcel a Andrade, a Gorkin, a Arquer… ¿Hasta dónde llegará esta monstruosa perversión?” (“El proceso contra el P.O.U.M.”, diciembre de 1938).

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Después de la victoria del ejército franquista, José Gabriel volvió a encontrarse en Buenos Aires con Diego Abad de Santillán, y colaboró con él en la nueva etapa de la revista Timón. La guerra se perdió, argumentaba en ella, por culpa de la U.R.S.S., cuando “en nombre del Frente Popular” puso fin a las milicias populares. No obstante, “ante la certeza de esta realidad espléndida que oyeron mis oídos, que vieron mis ojos, que tocaron mis manos, que oyeron y vieron y tocaron miles de otros hombres buenos ¿qué puede importar la interrupción de unos días, de unos años? Aquello está hecho, es irremediable, volverá. No lo dudemos” (“El triunfo español”, noviembre de 1939).
En el tercer número de Timón, Gabriel volvió –como en Burgueses y proletarios…, ese folleto ya lejano de ocho años antes– a atacar a los intelectuales de España. Decía entonces que estos se había “jubilado” después de la inauguración de la República. En 1936, su entrevista con Benavente presentó otra imagen igualmente desalentadora. Con la guerra ya concluida, se salvarían solo cuatro de la invectiva de Gabriel, uno de ellos el inevitable Federico García Lorca, santo y mártir de la causa:

Difícilmente pudo ser más desdichada la actitud de la intelectualidad española ante la guerra. Unos, como Unamuno, d’Ors, García Morente o Giménez Caballero, se entregaron sin condiciones y sin reservas a los facciosos; otros, como Marañón, Pérez de Ayala, Ortega y Gasset o Pío Baroja, escarcearon para ver si esquivaban el recado, pero al fin se sometieron también; otros, como Menéndez Pidal o Azorín, desensillaron hasta que aclarase, brindándose luego, claro está, a los triunfadores; otros, como Marquina o Gómez de la Serna, tuvieron su veleidad republicana, pero con un pronto y fervoroso arrepentimiento; otros, como Benavente, pusieron la cara (y él…) que exigía el mando de turno; y de los que puede decirse que estuvieron con la República, Palacio Valdés o los Quinteros no estuvieron más que físicamente, Américo Castro estuvo para negociar con los facciosos, Antonio Machado para cantar a un brigante como Líster, Rafael Alberti y Sender para auxiliar y justificar a los verdugos estalinistas, Amado Alonso para merecer una fama liberal que no le impedía negociar con una casa facciosa. Fuera de unos cuantos profesores, escritores, periodistas y técnicos de escasa nombradía (y quizás resida en ellos el valor que todavía seguimos asignándoles a los otros) que sirvieron de grado o por fuerza a la República y aun a la revolución proletaria, solo fueron nuestros, francamente nuestros, hasta las últimas consecuencias revolucionarias, Hoyos y Vinent, Gonzalo de Reparaz y León Felipe, aureolados por el martirio de García Lorca. (“La deserción de los intelectuales”, enero de 1940).

Notas

(1) Niall Binns  fue investigador principal del proyecto I+D+i “El impacto de la Guerra Civil Española en la vida intelectual de Hispanoamérica” (FFI2015-65817-P); autor de Argentina y la guerra civil española. La voz de los intelectuales (2012).